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Marco Causi

Professore di Economia industriale e di Economia applicata, Dipartimento di Economia, Università degli Studi Roma Tre.
Deputato dal 2008 al 2018.

La soluzione più conveniente non è sempre quella liberistica del lasciar fare e del lasciar passare, potendo invece essere, caso per caso, di sorveglianza o diretto esercizio statale o comunale o altro ancora. Di fronte ai problemi concreti, l´economista non può essere mai né liberista né interventista, né socialista ad ogni costo.
Luigi Einaudi
 



29/10/2009 Attilio Trezzini
Sex and Flexibility
Negli ultimi 15-20 anni la politica è stata invasa dall´epica della flessibilità del lavoro e dell´economia come caratteristiche generalmente favorevoli allo sviluppo e alla crescita economica. Dal punto di vista teorico questa posizione si basa su vecchie e autorevoli teorie che sostanzialmente affermano la tendenza automatica dei mercati concorrenziali verso le situazioni di ottimo ovvero di utilizzo pieno delle risorse disponibili (assenza di disoccupazione) e ottimo (massima efficienza tecnica). La flessibilità dei contratti di lavoro rappresenterebbe un elemento essenziale a far funzionare tutti i meccanismi automatici che la teoria considera essenziali a raggiungere questa condizione di ottimo.
Dal punto di vista dell´opinione corrente, invece, la flessibilità sarebbe un elemento positivo perché favorirebbe le imprese nel variare le dimensioni ed il livello della produzione in modo istantaneo e dunque tale da seguire l´andamento del mercato senza doversi sobbarcare necessariamente oneri permanenti che altrimenti scoraggerebbero variazioni (in aumento) della dimensione dell´impresa.
Per anni dunque si sono sostenute queste tesi che sono state introiettate completamente da tutti e in modo acritico (e più paradossale) dalla sinistra. Non ci dimentichiamo che in Italia il riferimento giuridico della gran parte dei rapporti di lavori flessibili è il pacchetto Treu più che la Legge Biagi. Che le principali riforme del sistema pensionistico le hanno fatte i governi di centrosinistra e così via.
Al di là di quanto non si cerchi di far apparire, però, in economia non esistono verità incontrovertibili, l´economia non è una scienza esatta, non è sperimentale. Dal punto di vista della coerenza interna delle teorie i principi su cui poggia la visione auto regolatrice del mercato sono soggetti a forti critiche da molti ‘approcci teorici´ dalla critica Keynesiana a quella che deriva dal lavoro di Sraffa da quelle che discendono dalle analisi degli istituzionalisti a quelle che considerano l´economia dell´informazione sono ormai moltissimi i filoni di ricerca che mettono in discussione più o meno radicalmente quei principi. Questi ultimi tuttavia, bisogna riconoscere, rimangono dominanti dal punto di vista degli economisti che si di essi fanno ricerca e, sopratutto, culturalmente egemoni.
Dal punto di vista delle verifiche empiriche, delle analisi scientifiche dei dati, la relazione tra flessibilità e occupazione o tra flessibilità e crescita è quanto meno controversa. Esistono moltissimi lavori che criticano questo legame. Certamente dunque dall´analisi degli economisti nel suo complesso non viene un´indicazione univoca.
Il ragionamento che cerco di sviluppare tuttavia prescinde da questo aspetto e si concentra su un punto diverso.
Ci possiamo chiedere se in condizioni di recessione, di una crisi economica internazionale che si propaga e dell´intensità e della durata di quella presente un´economia flessibile si trovi avvantaggiata rispetto ad una più rigida. O se sia vero il contrario.
Possiamo estremizzare per semplificare il ragionamento. Se un´idea non regge al paradosso è, probabilmente, un´idea debole.
Confrontiamo due economie una di Flessilandia in cui è possibile licenziare i lavoratori immediatamente senza alcuna forma di garanzia; l´altra è dell´arretrata Rigilandia in cui invece i lavoratori sono assunti a vita e perdono il lavoro solo quando la loro impresa, stremata dalla rigidità, fallisce.
Immaginiamo che inizialmente tutte e due le economie vadano bene. L´economia cresce; i salari dei lavoratori siano uguali alla loro produttività e le imprese realizzino profitti al loro saggio normale pari, supponiamo, al 20%.
(Negli ultimi anni tutte e due le economie hanno ridotto i redditi dei lavoratori dipendenti ed aumentato i profitti e i redditi dei lavoratori autonomi. Questo ha reso la dinamica dei consumi debole e ha inaridito una fonte di crescita per l´economia.)
Supponiamo ora che in un terzo paese dalle caratteristiche miste, che non ci interessano granché, si verifichi una crisi finanziaria. Che alcune Banche imprudenti abbiano concesso crediti in modo sbagliato e i nodi vengono al pettine. Alcune Banche falliscono e si genera una restrizione del credito. Alcune imprese non possono più investire, il Pil diminuisce e diminuiscono le importazioni di questo paese sia da Flessilandia che da Rigilandia.
In ambedue i paesi si generano due elementi che favoriscono la crisi. Da un lato i mercati finanziari sono collegati e dunque anche in questi paesi le Banche hanno dei problemi: possono aver investito in titoli tossici provenienti dal terzo paese, possono avere importanti relazioni economiche con le banche del terzo paese che sono fallite, ecc. Questo genera una crisi finanziaria anche nei nostri due paesi. Si restringe il credito sia a Flessilandia che a Rigilandia. Le imprese in ambedue i paesi avranno difficoltà di finanziare i loro investimenti; questi si inizieranno a contrarre e questo genera una spinta alla recessione.
D´altra parte, la crisi del terzo paese genera una diminuzione delle esportazioni sia a Flessilandia che a Rigilandia. In ambedue i paesi dunque le imprese che producono beni di investimento e quelle che esportano entreranno in crisi. Diminuirà il livello delle loro vendite e della loro attività. Dato il numero di lavoratori impiegati e dunque i salari (e gli oneri) pagati, la diminuzione del livello dell´attività comporta una diminuzione di profitti che dal 20% sul capitale investito scenderanno al 10%, al 5% fino allo 0% o potranno anche diventare negativi.
Non c´è dubbio che per un´impresa in difficoltà liberarsi di lavoratori che stanno producendo meno di quanto dovrebbero è conveniente. Consente di ristabilire il livello ‘normale´ di profitto o comunque di approssimarsi ad esso.
A questo punto le differenze tra i due paesi diventano rilevanti. A Flessilandia le imprese che producono beni per l´esportazione e quelle che producono beni per l´investimento licenziano. A Rigilandia sopportano considerevoli riduzioni di profitto e persino perdite comparativamente maggiori di quelli di Flessilandia.
A Flessilandia i lavoratori licenziati non possono contare su ammortizzatori sociali, perché in quel paese anche quelli sono considerati dei vincoli al funzionamento delle leggi di mercato. I lavoratori smettono di consumare. Le imprese che producono beni di consumo vedranno ridotte le loro vendite, diminuiscono la loro attività, i loro profitti e potranno e vorranno licenziare. Anche i lavoratori delle imprese che producono beni di consumo smetto a loro volta di consumare a altre imprese licenzieranno. La crisi si propaga a macchia d´olio.
A Rigilandia la crisi c´è ma ha caratteristiche diverse. Minore profondità. Ciò che viene meno sono i profitti delle imprese. Questi redditi finanziano i consumi in proporzione minore di quanto facciano i salari (questo vuol dire che i percettori di redditi alti consumano una quota del loro reddito generalmente minore di quella che consumano i lavoratori). I profitti possono anche finanziare − in modo più o meno diretto - gli investimenti ma in una situazione di crisi internazionale sembra plausibile che gli investimenti sarebbero comunque bloccati. A Rigilandia dunque sarebbero molto minori i lavoratori che perdono il posto (solo quelli delle imprese che falliscono completamente dopo un considerevole periodo di profitti bassi o negativi) e anche le imprese che entrano in crisi sarebbero in numero minore. Quelle che producono beni salario potrebbero, infatti, non avere conseguenze se non per la quota che esportano. Inoltre se nell´antiquato paese di Rigilandia anche gli ammortizzatori sociali fossero ancora molto importanti i lavoratori che perdono il posto, quelli delle imprese che chiudono, continuerebbero, finché i loro redditi sono in parte sostenuti dagli ammortizzatori, a consumare come prima o a ridurre i loro consumi in modo contenuto.
Parte dei problemi di Rigilandia deriverebbero da Flessilandia. In questo paese moderno ma infelice, il crollo dei consumi implicherebbe anche una diminuzione della domanda di beni importati da Rigilandia. In questo paese dunque si avrebbe un effetto negativo sulla produzione e sull´occupazione che sarebbe un riflesso della flessibilità di Flessilandia.
Per anni dunque la vecchia Europa e l´Italia in particolare sono state considerate ‘arretrate´ sulla strada della flessibilizzazione del mercato del lavoro. E questo veniva considerato dagli organismi internazionale una causa della minore crescita del Pil confrontata con quella della Flessibile economia Statunitense. Le politiche restrittive derivanti da Maastricht venivano assolte, e il principale colpevole era la rigidità nelle diverse forme del mercato del lavoro e derivanti dall´ingombrante sistema di Welfare.
Ma ora la minore profondità e asprezza della crisi economica nei paesi ‘rigidi´ non potrebbe essere il risultato proprio di questa rigidità?
Molte obiezioni possono naturalmente essere mosse a questo ragionamento, si potrebbe argomentare che le due economie non potrebbero partire dallo stesso livello di benessere perché Flessilandia sarebbe molto più avanzata di Rigilandia; o che Flessilandia sarebbe certamente più pronta a cogliere le occasioni di ripresa dei Rigilandia e più rapida a ritornare ai livelli di produzione e benessere precedenti alla crisi.
Ma se ragionare su questi due ipotetici paesi inducesse, sopratutto i politici, a comprendere che in economia non esistono verità né ‘tecnici´ e a riflettere in modo meno acritico e ideologico di quanto avvenuto negli ultimi anni su questi temi forse avremmo già fatto un primo importante passo.
Potremmo persino dover essere ancora costretti a ringraziare quei sindacalisti e quei politici che nei decenni scorsi hanno costruito e difeso garanzie per i lavoratori e sistemi di Welfare. E forse lo dovrebbero fare persino le imprese italiane.
 
Attilio Trezzini
Dipartimento di Economia
Facoltà di Economia ´Federico Caffè´
Università di Roma 3
Via Silvio D´Amico 77
00145 Roma
 

 
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