Eric Hobsbawn propose qualche anno fa di far finire il XX secolo, il "secolo breve", nel 1989. Può darsi che in futuro qualche storico proponga invece di farlo durare fino alla grande crisi del 2008. Perché questa crisi segna la fine dell´equilibrio geo-politico-economico stabilitosi dopo la caduta del muro di Berlino. E proietta il mondo verso nuovi e inediti scenari.
La crisi mondiale, pur essendo esplosa come crisi finanziaria, ha profonde radici reali nel mondo che si è venuto costruendo a partire dalla seconda metà degli anni ´80. I punti cruciali sono tre: il deficit americano, che ha permesso agli Stati Uniti di correre, fino ad inciampare; la crescente libertà di movimento non solo dei capitali e delle merci, ma anche delle persone, con l´aumento dei flussi migratori; lo sviluppo dell´Asia, ma anche di altre nuove potenze economiche regionali a medio reddito.
Nessuno di questi elementi, però, va analizzato in modo superficiale, assegnandogli connotazioni puramente negative. Il mondo è davvero più complesso oggi rispetto a venticinque anni fa.
Il deficit americano è stato reso possibile dal ruolo peculiare del dollaro e dalla volontà dei paesi esportatori negli USA (Cina) e di quelli produttori di petrolio di detenere in dollari le proprie riserve. Questo deficit ha fatto crescere il mondo. E lo ha fatto crescere soprattutto durante gli anni ´90, quando più della metà della crescita mondiale è stata "trainata" dagli USA. Nel primo decennio del nuovo millennio, invece, il deficit americano spiega solo il 20% della crescita mondiale.
Le tesi di Tremonti sul presunto fallimento del riformismo mondiale degli anni ´90 (Clinton, Blair) vanno rispedite al mittente. Al contrario, è stata la destra americana negli anni successivi al 2001 a capovolgere gli effetti delle politiche degli anni ´90. Lo ha fatto con la guerra, con una deregolamentazione sfrenata dei mercati finanziari, con una politica dello struzzo nei confronti delle tensioni speculative (sul mercato immobiliare interno così come su quello dei prodotti petroliferi). Lo ha fatto riducendo il ruolo propulsivo degli Stati Uniti nei confronti del resto del mondo. Una destra americana, quella dei governi Bush, che ha trovato proprio nei governi della destra italiana presieduti da Berlusconi uno dei principali cantori e alleati.
Insomma, non saranno "Dio, patria e famiglia" a salvare le basi della crescita e della coesione mondiale, ma un nuovo governo dell´economia planetaria: nuove regole, nuove istituzioni di vigilanza, nuova cooperazione fra i paesi, nuova cultura nelle istituzioni economiche internazionali. Finanche, forse, un nuovo assetto del sistema monetario, con la riduzione della centralità del dollaro.
La leadership di Obama si rivela in questo senso fondamentale, poiché dovrà gestire un assestamento della centralità economica americana senza che ciò si trasformi in aumento dell´instabilità politica. L´Europa dovrebbe aiutarlo di più.
L´Europa infatti è restata troppo spesso ai margini, bloccata dalla mancata evoluzione del suo assetto istituzionale e dal freno rappresentato dall´indirizzo politico in Germania. Un indirizzo sempre volto a obiettivi mercantili (esportazioni), che non ha aperto finora la strada a vere politiche di sostegno della domanda e della crescita interna europea (eurobonds, investimenti pubblici aggiuntivi, ecc.). Con un deficit di credibilità, quindi, quando si tratta di spingere le nuove potenze mercantili (Cina) verso il superamento di una fase di sviluppo basata sulle esportazioni, verso una nuova priorità di cura degli squilibri sociali e territoriali interni, verso nuovi massicci investimenti sui servizi universali e sulle assicurazioni sociali, a cominciare dalla sanità e dalla previdenza.
E tuttavia anche l´Europa è molto diversa da venticinque anni fa. Un grande spazio comune, una moneta unica che lega il cuore più forte dei paesi dell´Unione, l´abbattimento di frontiere che per centinaia di anni, a partire almeno dal 1500 fino al 1945, sono state teatro di guerre che l´evoluzione tecnologica ha reso sempre più feroci e cruente. Anche qui dobbiamo sempre ricordare che la destra italiana ha subìto di malavoglia, e spesso ha contrastato, il processo di integrazione europea, salvo convertirsi in occasione della crisi quando è risultato evidente il beneficio dell´appartenenza all´euro.
Liberali e keynesiani: la lezione di Obama
A me sembra che lo scenario mondiale confermi l´ispirazione del Partito Democratico. Un partito nato per andare oltre le ideologie e le culture politiche del XX secolo. Che si vuole confrontare con un mondo interamente nuovo. In cui, attenzione, non sono finiti i conflitti politici (vedi Iran, ma in futuro anche la Cina …) e gli squilibri sociali. E in cui, crollate le ideologie iper-liberiste, occorrerà ricostruire una nuova (e alta) funzione di indirizzo e di intervento politico: per la regolazione, per la vigilanza, per la cooperazione internazionale, per la coesione sociale, per il diritto al lavoro e alla sicurezza sociale, per la sfida della sostenibilità ambientale del pianeta.
Qui non si tratta di dividersi fra "liberali" e "keynesiani" sulla necessità di un aumento dell´intervento pubblico. La crisi ha già portato ad un aumento dell´intervento degli Stati, da soli o in cooperazione fra loro, e questa fase durerà, auspicabilmente, a lungo. Non è la prima volta nella storia, e forse non sarà neanche l´ultima, che il "pendolo" politico oscilla fra lo Stato e il mercato. Questa caratteristica dei cicli politici è, anzi, connaturata ai sistemi capitalistici che operano in contesti istituzionali di democrazia compiuta.
Si tratta però di collocare il nuovo intervento pubblico nella corretta prospettiva del mondo del XXI secolo. Di affrontare, con pragmatismo e fuori dall´ideologia, gli effettivi bisogni sociali ed economici, quelli che stanno sul campo "qui ed ora", non nei libri di storia. Di fare tesoro degli errori compiuti dagli Stati nei cicli precedenti, quando il pendolo non si era ancora stato spostato a vantaggio del liberismo estremo, di approntare strumentazioni e controlli adeguati. Farò più avanti alcuni esempi sull´Italia.
Ma c´è un esempio che viene da Obama che mi permette di far capire il punto. Penso al salvataggio dell´industria automobilistica americana.
Un´operazione compiuta all´interno di un piano strategico di riconversione ecologica dell´apparato industriale americano, e quindi non meramente sociale ma ambiziosamente industriale. Un´operazione che ha utilizzato come strumento l´ingresso non solo dello Stato ma anche dei lavoratori come soci delle aziende da salvare. Ma che, al tempo stesso, ha chiarito che la gestione delle aziende salvate non deve cadere nelle mani né del Governo né dei sindacati, ma di soci e partner industriali portatori di conoscenza, tecnologie, indipendenza, responsabilità e abilità gestionali (come la Fiat per Chrysler e quelli che ancora stanno cercando per General Motors).
Insomma: non una "ripubblicizzazione" stile anni ´60, ma qualcosa di totalmente nuovo. Qualcosa che contiene una lezione anche per l´Italia, dove dobbiamo con più convinzione procedere sulla strada della partecipazione dei lavoratori alla proprietà delle imprese. E dove non dobbiamo fare passi indietro (diversamente da una serie di provvedimenti messi in campo dal Governo Berlusconi) sulla strada di un corretto equilibrio nei rapporti fra proprietari delle aziende, in particolare se a partecipazione pubblica, e responsabili gestionali. La gestione delle aziende va sottoposta al controllo di un mercato trasparente e non a quello della politica o dei salotti buoni del nostro piccolo e asfittico capitalismo familiare. Solo così, peraltro, potremo far crescere in Italia e attrarre dall´estero investitori istituzionali interessati non al gioco di potere dei risiko aziendali, ma al rendimento di lungo periodo dell´investimento. Anche perché questa sarà una regola (ritrovata) di un "buon" capitalismo nel ciclo dei prossimi anni, dopo la sbornia speculativa del "cattivo" capitalismo dei primi anni del millennio ("Capitalismo buono e capitalismo cattivo" è il titolo dell´ultimo libro di William Baumol, recentemente tradotto in italiano, di cui consiglio la lettura).
In questa prospettiva, operazioni strategiche di politica industriale sono da auspicare, e non da temere come se si trattasse di un ritorno al passato. Se la paura è l´intromissione di una politica con la p minuscola, si adottino le regole di Obama. Nel caso, particolare ma di grande importanza, delle imprese partecipate dallo Stato, si introducano meccanismi di controllo e di rendicontazione, oggi quasi del tutto assenti. Ma non si volga altrove lo sguardo di fronte alle enormi necessità del paese di investire in modo efficiente sulle nuove tecnologie energetiche, sulle nuove reti di trasmissione dati, sui prodotti e processi che stanno alla frontiera dell´innovazione tecnologica e della ricerca scientifica e, last but not least, sulle reti dei servizi di interesse economico generale (trasporti, acqua, rifiuti).
Non ci basta Viareggio per capire che non ci si può più accontentare del piccolo cabotaggio su questo terreno?
Italia: le cattive notizie sono molte. Ma non ce n´è davvero nessuna buona?
La crisi mondiale ha colpito l´Italia, insieme alla Germania, più degli altri paesi europei. E´ inutile girarci intorno, o edulcorare le cifre, o addirittura censurare (!!!) le statistiche ufficiali, come vorrebbe il Governo, dimenticando che il sistema dell´informazione statistica è interamente regolato a livello europeo.
Si tratta invece di capire il perché. E, nel farlo, di comprendere che dietro questo dato ci sono molte cattive notizie, ma anche, a ben vedere, una notizia buona.
L´Italia è stata colpita dal crollo della domanda mondiale perché è un paese fortemente dipendente, nel suo apparato industriale, dalle esportazioni. Esattamente come la Germania, e in simbiosi con essa, vista l´elevata integrazione produttiva fra i due sistemi.
Qui la notizia è davvero cattiva, perché la domanda mondiale resterà bassa ancora a lungo. In realtà, non si è ancora capito chi o cosa sostituirà, nel nuovo equilibrio mondiale, quella forte domanda americana che per venticinque anni ha trainato il mondo. Molti sperano nella Cina, o nella stessa capacità degli Stati Uniti di riprendersi più prontamente. Sull´Europa, come detto, poggiano finora poche speranze (ma una battaglia politica costante da condurre, a Roma e a Bruxelles, da parte delle forze democratiche).
E quindi è probabile, purtroppo, che il conto doloroso della crescita della disoccupazione e delle chiusure e ridimensionamenti aziendali sia destinato a continuare, e forse a peggiorare con la ripresa autunnale. Ci si deve preparare insomma ad una possibile impennata della crisi sociale, già drammaticamente espressa dalla crescita della disoccupazione.
E´ questa la vera emergenza a cui il Governo Berlusconi non ha saputo ancora rispondere: non bastano le deroghe alla Cassa integrazione, ci vuole un sistema universale di protezione dal rischio della disoccupazione e della perdita totale del reddito da lavoro. Un sistema anche temporaneo, ma che fornisca una coperta più larga di quella attuale, e quindi dia copertura non solo ai lavoratori dipendenti di alcuni settori, ma anche ai settori non attualmente inclusi, ai temporanei, ai collaboratori, alle partite Iva in monocommittenza, sulla linea delle proposte più volte avanzate dal Partito Democratico. Non si tratta di sostituire la Cassa integrazione (che, con il suo meccanismo assicurativo, sta funzionando egregiamente) ma, da un lato, di ampliarla, mantenendone la natura assicurativa, con costi a carico di imprese e di lavoratori e non solo dello Stato, e dall´altro lato di introdurre nuovi pilastri di assicurazione sociale e di intervento di ultima istanza, quest´ultimo da gestire in collaborazione con i servizi sociali di livello territoriale.
Non si tratta solo di sostenere i consumi interni, o di esprimere il massimo di solidarietà nei confronti di chi è colpito dalla crisi. Si tratta anche di mantenere in vita un capitale umano (e sociale) che rischia di andare distrutto, e di cui il paese avrà invece bisogno quando dalla crisi si uscirà.
Dov´è allora la buona notizia? Sta nel fatto che, con tutta probabilità, avevamo sottovalutato negli ultimi anni la forza dell´apparato industriale italiano e le modalità con cui ha saputo ristrutturarsi e mantenere la sua presenza sui mercati.
La discussione sul "declino" ci ha fatto male
L´Istat ha rivisto recentemente alcune stime contabili, rivalutando gli indici di produttività negli anni centrali del decennio. Insomma, non c´è solo la Fiat che ci dovrebbe sorprendere, ma anche la tenuta, fino allo scoppio della crisi, di tanti distretti. E non solo di quelli del Nord: ad esempio, anche delle nuove vocazioni produttive di una città una volta un po´ sonnacchiosa e burocratica come Roma (aerospazio, ICT, software, audiovisivo, ecc.).
Naturalmente, ciò non significa che siano scomparsi i due problemi strutturali dell´apparato produttivo italiano: la sua concentrazione geografica in poche aree del paese, e cioè la sua mancata espansione nel Mezzogiorno (che anzi negli anni 2000 è andato indietro al confronto con qualche passo avanti marcato negli anni ´90), e la debolezza delle sue forme d´impresa, con la preponderante presenza di imprese piccole e piccolissime.
E non significa neppure che questo apparato industriale possa farcela da solo a trainare il sistema, se dinamiche simili di riorganizzazione e di aumento della produttività non si innesteranno in altri settori, a partire da quello dei servizi, in particolare quelli forniti dalla pubblica amministrazione. E non va sottovalutato il peso che, sullo sviluppo "frenato" dell´Italia degli ultimi quindici anni e sul suo sviluppo potenziale, esercita la rendita: non solo la rendita da protezione monopolistica, ma anche la rendita classica, e cioè quella che deriva dalla scarsità della risorsa spazio, che ha condotto anche da noi a evidenti eccessi nel settore immobiliare, con costi a carico delle famiglie e delle imprese, soprattutto nelle grandi aree urbane, con una chiara difficoltà di regolazione da parte dell´operatore pubblico.
Ma significa che, lasciando stare ogni tentazione "declinista", c´è una realtà da cui ripartire: una realtà che rappresenta la seconda industria d´Europa dopo la Germania. In territori in cui è concentrata una nuova classe imprenditoriale, una nuova classe operaia, un nuovo settore di fornitura di servizi specializzati alle imprese, a sua volta costituito da tantissime microimprese.
Questi territori vanno meglio conosciuti e meglio praticati dal Partito Democratico. Con un´iniziativa politica che continui a battere sull´inadeguatezza delle misure anti-crisi del Governo. E che insistano sulle nostre proposte, sulla nostra "contro-manovra" da un punto di Pil che, se il Governo avesse attuato, avrebbe ridotto quel terribile − 5 per cento che vediamo oggi nelle stime di tutte le istituzioni di analisi economica interne e internazionali, e avrebbe almeno dato un senso all´aumento che oggi registriamo nel deficit pubblico: utilizzo della Cassa depositi e prestiti per anticipare i pagamenti della pubblica amministrazione, estensione della protezione ai disoccupati, contrasto delle politiche di restrizione del credito da parte delle banche tramite nuovi sistemi di garanzia, detrazioni fiscali per i figli, per le famiglie a reddito medio-basso e basso, per gli anziani; piena capienza del credito d´imposta per il Mezzogiorno e per gli investimenti in ricerca, sblocco degli investimenti degli enti locali virtuosi.
E con nuove proposte politiche che guardino sempre più anche al domani dei ceti produttivi del paese. Oggi Tremonti rilancia la detassazione degli utili reinvestiti nelle imprese: qualcuno dovrebbe ricordargli che nel 2001 cancellò qualcosa di molto simile, e anzi di più completo: penso alla dual income tax (DIT), messa in campo dai Governi di centro-sinistra della precedente legislatura e volta a incentivare ogni tipo di investimento che favorisca la crescita patrimoniale delle imprese. Va bene che Tremonti abbia cambiato idea, come sull´Europa, ma non basta.
Non dobbiamo avere nessuna idiosincrasia a parlare della necessità di una nuova politica industriale, e anche qui Obama ci viene in soccorso: nel XXI secolo la politica industriale si chiama ricerca, ricerca e ancora ricerca, innovazione tecnologica, connessione fra università, laboratori e imprese, risparmio energetico, investimenti sulle tecnologie del futuro.
Sarkozy è stato più audace di Berlusconi e di Tremonti, destinando 20 miliardi di euro di risorse assegnate alla Cassa Depositi e Prestiti della Francia ad un Fondo (Fondo strategico per gli investimenti) che ha la missione di fornire capitale ai progetti industriali del futuro. La gestione del Fondo e la scelta dei progetti da finanziare è stata demandata ad un Comitato in cui la maggioranza dei componenti è costituita da personalità indipendenti. Perché in Italia non potremmo fare lo stesso, destinando almeno il 50% delle risorse a progetti promossi da piccole e medie imprese o loro consorzi e aggregazioni?
Per le piccole imprese italiane la parola chiave, a parte gli interventi anti-crisi, resta: semplificazione. Nella burocrazia e nei rapporti con l´amministrazione fiscale. Nella precedente legislatura il centro-sinistra ha introdotto il "forfettone": un solo adempimento fiscale sostitutivo di tutto per le microimprese con meno di 30 mila euro di fatturato. Oggi si tratterebbe di ampliarne la platea dei beneficiari, aumentando la soglia fino a 50 o 70 mila euro, piuttosto che di discutere all´infinito i parametri da applicare negli studi di settore. E di mettere in moto la Guardia di Finanza e l´amministrazione fiscale per colpire gli evasori a partire dal livello di consumi e di patrimonio espressi dai soggetti, quando incompatibili con i livelli di reddito dichiarati, e non pretendendo di ricostruire analiticamente le contabilità di 8 milioni di partite Iva.
Disuguaglianze, immigrazione, povertà: le sfide di un nuovo riformismo
Il dinamismo e la turbolenza della fase storica apertasi con la caduta del muro di Berlino ha comportato un effetto sgradevole: in tutti i paesi la distribuzione del reddito è peggiorata. Per i paesi in fase di accelerato sviluppo questo è un fatto abbastanza normale: i guadagni dello sviluppo si concentrano inizialmente su pochi segmenti (industria, aree urbane, settori esportatori) e si diffondono solo in un secondo momento, quando lo sviluppo diventa "maturo". In generale, questo passaggio comporta notevoli tensioni ed è direttamente legato all´ampliamento, in molti casi alla conquista, degli spazi di una democrazia più avanzata (libertà di associazione sindacale e politica, rivendicazione di diritti salariali e universali, parlamenti democraticamente eletti, ecc.).
Come interpretare invece il peggioramento della distribuzione dei redditi nei paesi avanzati? Questo è un cavallo di battaglia per le interpretazioni di una sinistra legata alle tradizioni novecentesche. Ma anche la destra lo utilizza, accusando le politiche riformiste degli anni ´90 di avere aperto la strada ad un mondo sempre più diseguale e contrapponendo ad esse il localismo e la blindatura delle frontiere.
Attenzione, però: la popolazione di oggi (in Italia, piuttosto che negli Stati Uniti o in Francia), su cui calcoliamo la distribuzione dei redditi, non è la stessa di venticinque anni fa. Ci sono milioni e milioni di immigrati in più (quattro in Italia, più di trenta negli USA, cinque in Francia, ecc.). L´afflusso degli immigrati ha peggiorato le condizioni distributive all´interno dei paesi di accoglienza. Fra l´altro, gli immigrati tengono "bassi" i salari, permettendo l´ampliamento di una forza lavoro che nei paesi avanzati si va assottigliando: un meccanismo ben noto fin dall´800, quello che Marx chiamava l´"esercito industriale di riserva", su cui hanno costruito il loro sviluppo capitalistico originario i paesi, come gli Stati Uniti, che hanno utilizzato in modo consapevole e pianificato la leva dell´immigrazione.
Ora, è molto probabile che queste decine di milioni di persone stiano comunque meglio adesso di quanto sarebbero state se fossero rimaste nei paesi di origine. Insomma: il peggioramento della distribuzione nei segmenti bassi di reddito dei paesi avanzati è un risultato anche del grande dinamismo del mondo degli ultimi decenni.
E tuttavia, questa rischia di essere una ben magra consolazione per i democratici e per i riformisti, una consolazione, diciamo, dal sapore etico e internazionalista, ma che si trasforma in una debolezza politica al confronto con le paure e con le parole d´ordine populiste che le destre di tutto il mondo cavalcano sulla questione dell´immigrazione.
Il fatto è che le turbolenze nella parte bassa della distribuzione dei redditi si sono accompagnate, in Italia più che in altri paesi, con altri tre fenomeni: primo, un´insufficiente dinamica salariale, a causa anche dell´evoluzione della pressione fiscale e parafiscale sul lavoro; secondo, una crescita della segmentazione sul mercato del lavoro, e quindi distanze divenute ormai socialmente insostenibili fra diverse categorie di lavoro, soprattutto per la diffusione della precarietà; terzo, un´estensione delle povertà relative, e cioè della difficoltà di accesso a beni e servizi primari, prima fra tutti la casa e, a seguire, alcuni servizi essenziali distribuiti (diversamente dalla sanità) in modo fortemente eterogeneo sul territorio nazionale (non autosufficienza, servizi materno-infantili, trasporto pubblico, ecc.).
I primi due fenomeni sono collegati alla scarsa crescita della produttività e al peso preponderante che è stato scaricato sul lavoro nella ricerca della competitività. Vedi, ad esempio, il prevalente beneficio accordato alle imprese nella riduzione del cuneo fiscale del Governo Prodi, peraltro indotta da misure analoghe prese dagli altri paesi europei, e soprattutto dalla Germania, in un quadro di distruttiva competizione fiscale dentro un´area monetaria comune. Il terzo fenomeno è collegato al mal funzionamento delle politiche di welfare pubblico nel nostro paese.
Invertire queste tendenze è una priorità politica assoluta per il PD: sostegno ai salari, "riunificazione" del mercato del lavoro, riduzione delle povertà relative. E insieme a questo, la comprensione che la capacità di accoglienza di manodopera immigrata dipende da variabili di sistema e si riduce con la crisi economica. Se per noi accoglienza vuol dire diritti, e non può non essere così per i democratici, allora dobbiamo allo stesso tempo promuovere politiche per la regolazione dei flussi, la loro programmazione, la loro sostenibilità in relazione a veri percorsi di integrazione, il sostegno allo sviluppo locale nei paesi di origine.
C´è qualcosa che non va in un paese che non si è dotato di una moderna organizzazione di servizio per la non autosufficienza, e supplisce poi a questa carenza con centinaia di migliaia di badanti familiari.
C´è, però, un altro segnale distributivo altrettanto, se non più, negativo, che emerge in quasi tutti i paesi avanzati negli ultimi venticinque anni: l´aumento molto rilevante della concentrazione di redditi e ricchezza a vantaggio di ristretti segmenti "alti", spesso non più dell´1% della popolazione. In tutti i paesi, ma non in Italia, gli interventi anti-crisi hanno voluto inviare segnali di equità su questo versante, con l´aumento delle aliquote marginali destinate ai redditi più elevati e con la riforma dei sistemi di retribuzione dei top manager, soprattutto nel settore finanziario. E´ merito di Franceschini avere avanzato questa proposta anche per l´Italia: si tratta di insistere su questa strada.
Cambiare il paese: solo alcuni esempi
Se l´obiettivo dei democratici non è quello di governare purchessia facendo leva sul solo anti-berlusconismo, ma è quello di cambiare il paese per metterlo in grado di stare a testa alta nel nuovo mondo del XXI secolo, costruendo una nuova speranza per i giovani italiani, la mia opinione è che il bipolarismo vada tendenzialmente rafforzato, e non annacquato. E che il PD debba proporsi come il catalizzatore ampio di un riformismo forte che affonda le sue radici nel popolo.
Ma questo, è naturale, non basta: occorre un lavoro (di lunga lena) per costruire il terreno delle riforme. Non solo quello culturale e tecnico, ma anche quello del consenso.
Il discorso sul sistema di protezione dal rischio di disoccupazione si può ampliare. La domanda principale che esprime la nostra società, oggi, è una domanda di protezione, di sicurezza. La risposta a questa domanda non può essere abbandonata a una destra con tendenze protezionistiche e iper-localistiche. Sarebbe sbagliato, per i democratici, dividersi fra "lib" e "lab". Mai come in questa crisi ci rendiamo conto delle storture e delle inefficienze del nostro sistema di welfare, che lascia scoperti amplissimi spazi di bisogni sociali essenziali: la disoccupazione, come si è detto, ma anche l´accesso alla casa con costi sostenibili, l´assistenza agli anziani, e in particolare ai non autosufficienti, l´accesso ai servizi di sostegno alle famiglie con figli, come gli asili nido, la formazione dei giovani e degli adulti, la sicurezza sul lavoro.
E c´è qualcosa che non va in un sistema, soprattutto quello pubblico, dove il merito stenta ad affermarsi, anche per colpa di una eccessiva invadenza della politica sulle strutture tecniche e professionali.
Welfare e politiche fiscali
Si tratta allora di mettere in piedi una serie di cantieri di riforma del nostro welfare, ancora oggi eccessivamente concentrato sul solo sistema pensionistico. Attenzione, non penso solo alla nota vicenda del completamento della riforma pensionistica, con la libertà di scelta per l´uscita, fatta esclusione per i lavori davvero usuranti. E non penso solo alle altre misure necessarie per trasformare il nostro sistema di protezione sociale in un moderno workfare (uscita "morbida" degli anziani dal mercato del lavoro, affiancamento giovani-anziani, riduzione della segmentazione contrattuale, ecc.).
Penso anche alla riforma dello Stato, perché è a partire dalla legge 42 di attuazione dell´articolo 119 della Costituzione (cosiddetto "federalismo fiscale") che, su iniziativa del Partito Democratico, si è aperto un altro importante cantiere che dovrà nell´arco dei prossimi mesi definire i "livelli essenziali" dell´offerta in un vasto campo di servizi pubblici essenziali (sanità, assistenza, servizi di prossimità). Ed è qui che il Partito Democratico potrà mostrare la sua novità culturale: nel promuovere una riforma dello Stato volta a concentrare sempre di più l´attenzione degli amministratori pubblici sui servizi essenziali e nel definire standard di welfare e di costi davvero europei per l´intero territorio nazionale.
E´ stato l´ultimo Governo di centrosinistra a introdurre in Italia la spending review, e cioè la valutazione di quanto costano le singole prestazioni pubbliche. Su questa base bisogna continuare, fino a definire i costi standard più efficienti, per trovare da qui i risparmi necessari a finanziare le nuove prestazioni e, in prospettiva, a ridurre la pressione fiscale.
E´ così che, nel XXI secolo e in una società matura come l´Italia, si perseguono obiettivi di equità sociale. Perseguendo tre grandi indirizzi: un sistema fiscale che valorizzi la produzione di beni pubblici da parte della famiglia (dote fiscale per i figli, detrazioni per il lavoro femminile, ecc.); un sistema di servizi che garantisca i diritti universali di accesso e di fruizione a tutti i cittadini; un sistema fiscale che chiami a partecipare al finanziamento della cosa pubblica tutti i redditi, con una costante attenzione al contrasto dell´evasione fiscale e una nuova attenzione ai redditi e ai patrimoni di grande entità.
Riforma delle istituzioni repubblicane
Lo Stato, poi, deve funzionare di più e meglio. A questo pensiamo con le nostre proposte di riforma istituzionale volte a rafforzare una vera "democrazia governante", senza però indebolire il contrappeso del controllo del Parlamento. Superare il bicameralismo perfetto significa avere un Senato federale, rappresentativo delle Regioni e degli enti locali, che permetta finalmente di superare un´eccessiva litigiosità fra istituzioni che rende lento il processo decisionale e poco efficace il processo attuativo di tantissime politiche pubbliche in Italia. Oggi, in tutte le materie di legislazione concorrente, non basta che lo Stato faccia una legge, occorre poi che venti Regioni ne facciano altrettante (Berlusconi se ne è accorto con il piano casa…). Domani, si potrà anche pensare di introdurre la seguente regola: se il Senato federale approva una legge, le Regioni si dovranno limitare ad applicarla. I cittadini non ne possono più della litigiosità fra istituzioni, che spesso diventa anche scaricabarile fra i diversi gruppi dirigenti politici.
E´ necessario anche costruire vere e proprie autorità federali, in cui siano presenti e lavorino insieme lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni. Per far funzionare meglio i servizi pubblici non bisogna contrapporsi fra centralisti e decentratori. Occorre, semplicemente, lavorare insieme con piena trasparenza: per definire gli standard, valutare i costi più efficienti, aiutare le amministrazioni più deboli nel processo di convergenza alle migliori pratiche, controllare che le tariffe siano applicate in modo equo e uniforme sull´intero territorio nazionale, vigilare sulla corretta applicazione dei principi contabili da parte di tutte le pubbliche amministrazioni, diffondere le esperienze di rendicontazione sociale.
Il Mezzogiorno
Non dobbiamo rassegnarci all´impossibilità di perseguire obiettivi di sviluppo nel Mezzogiorno. Anche qui il "declinismo" ha fatto male alla cultura politica italiana, e ha impedito di guardare con più attenzione e competenza a quello che è successo e succede sui territori. Ad esempio, alle differenze sempre più evidenti fra profonda crisi civile dei grandi conglomerati metropolitani del Sud e fermenti diffusi nel resto del territorio, con storie civiche, sociali e produttive di tutto rispetto, magari più frequenti quanto più si è lontani dalle città più grandi.
Le risorse investite per l´intervento di sviluppo sono spesso state dirottate su obiettivi ordinari. Il punto allora è di concentrare le risorse, finanziare e politiche, sul funzionamento ordinario dei servizi essenziali nel Sud, a partire dal rispetto della legalità e dalla sicurezza di famiglie e imprese. E´ nel buon funzionamento, e in molti casi nell´ampliamento, dell´ordinario che si gioca la scommessa dello sviluppo del Sud, destinando poi le risorse straordinarie a progetti di impatto significativo sullo sviluppo territoriale.
Servizi di interesse generale
Nei servizi pubblici di interesse generale dobbiamo superare una discussione tutta teorica (oppure opportunistica) fra fautori delle liberalizzazioni e fautori del socialismo municipale. Quello che è mancato in Italia, ormai da troppo tempo, è un apparato funzionante di "buona" regolazione di servizi essenziali per la coesione e la competitività dei territori, come l´acqua, i rifiuti, i trasporti pubblici locali e regionali: gli standard di offerta e di qualità da rispettare, le carte dei servizi, la verifica dell´efficienza sui costi e dell´equità delle tariffe.
E´ su questo che vanno concentrate le risorse della politica, e non sulla scelta dei componenti dei Consigli di amministrazione delle aziende locali. Ben venga, allora, più concorrenza, ma a condizione che il Governo e il Parlamento facciano il loro lavoro: un lavoro di manutenzione straordinaria delle leggi che regolano questi settori, leggi che derivano tutte dalla stagione riformista degli anni ´90 e che, a dieci-quindici anni di distanza, hanno bisogno di un´urgente messa a punto, senza aspettare di esservi costretti sotto i colpi dell´emergenza.
Contrattazione e concertazione
La contrattazione aziendale, così come quella decentrata, non va temuta, ma anzi praticata con convinzione e con regole che garantiscano la rappresentanza. E´ questo il solo mezzo per far affluire al lavoro i guadagni degli incrementi di produttività che derivano dalle modifiche dell´organizzazione e per far contare le organizzazioni dei lavoratori, così come quelle delle imprese, nelle decisioni pubbliche, sempre più importanti, che vengono prese localmente e non più centralmente.
E´ vero infatti che la concertazione non deve essere un fine, ma un mezzo. Ma è anche vero che il metodo dell´ascolto, della progettazione condivisa, della partecipazione dei corpi intermedi al confronto con le istituzioni e alla elaborazione delle politiche pubbliche sono ingredienti essenziali per il consolidamento del capitale sociale di una comunità. E il PD non può non ritenere che il capitale sociale sia altrettanto importante, per lo sviluppo e per la coesione, delle regole giuridiche e formali.
Exit strategy per i conti pubblici
Il debito pubblico italiano era già elevato, e lo sarà ancora di più nei prossimi anni. Abbiamo imparato a spaventarci meno di questa cifra enorme, perché abbiamo scoperto in occasione della crisi che in altri sistemi, con debito pubblico inferiore, il debito privato (di famiglie e imprese) era esploso e diventato poco sostenibile.
E tuttavia, a lungo andare dobbiamo sapere che sarà necessaria una exit strategy, anche per fornire in prospettiva una speranza di riduzione dell´ingente quantità di risorse (più di 70 miliardi) prelevate ai cittadini che non tornano sotto forma di servizi, ma vanno invece a finanziare il pagamento degli interessi. Non ci sarà alternativa ad una lunga stagione di rigore finanziario, durante la quale riportare e mantenere l´avanzo primario ad un consistente valore positivo. Ciò sarà possibile solo se si perseguirà l´efficienza nei costi dei servizi pubblici, se si concentrerà la spesa pubblica sui servizi essenziali e se lo sforzo fiscale sarà equamente distribuito su tutti i cittadini, riducendo le ampie sacche di elusione ed evasione.
Potrà aiutare una politica di più attenta ed efficace valorizzazione delle proprietà pubbliche, in particolare di quelle immobiliari, condotta con la collaborazione fra Stato e Comuni e volta, però, non solo a "far cassa" ma anche a realizzare programmi urbanistici di qualità e di riqualificazione delle nostre città.