Come curare il declino italiano
La recensione al libro di Anna Giunta e Salvatore Rossi (sottotitolo "La nostra economia dopo la grande crisi") dell´economista ex vicesindaco di Roma
L´Unità, 3 marzo 2017
Si iniziò a parlare di "declino dell´Italia" nei primi anni
del nuovo millennio. Nel maggio 2005 l´Economist
dedicò la copertina alla nostra penisola, raffigurata barcollante e appoggiata
a tante stampelle. Titolo del servizio: "The real sick man of Europe", il vero
malato d´Europa. Eppure in quegli anni crescevamo, magari poco e male, ma il
Pil era in zona positiva.
Cosa si dovrebbe dire allora dell´Italia che esce da sette
anni di Grande Recessione? Il confronto fra 2015 e 2008 nei numeri
dell´economia sembra quello di una paese che ha attraversato una guerra:
abbiamo perso il 10 per cento del Pil, il 17 per cento del prodotto
industriale, un milione di posti di lavoro, il 30 per cento degli investimenti;
la disoccupazione è raddoppiata, sono aumentate le diseguaglianze
socio-economiche fra le persone e le distanze fra le imprese, fra quelle che
sono riuscite a sopravvivere e crescere, quelle che non ce l´hanno fatta,
quelle che restano a metà del guado.
Uscire dal declino si
può. Ma dobbiamo farlo con le nostre mani e abbiamo bisogno di tempo
Se prima era declino, oggi l´Italia è un malato incurabile?
La risposta di Anna Giunta e Salvatore Rossi nel bel libro edito da Laterza (Che cosa sa fare l´Italia. La nostra economia
dopo la grande crisi) è no. Nel sistema Italia circolano sufficienti
anticorpi e proteine per avviarsi alla guarigione.
Il punto è che dobbiamo metterli in moto noi stessi, trovare
la voglia e le energie per farlo con le nostre mani, dal di dentro del paese,
senza aspettarci aiuti e senza invocare qualche vincolo esterno che ci obblighi
a farlo.
Anzi l´uso politico dei vincoli esterni, le politiche pavide
del "legarsi le mani", di non raccontare la verità all´opinione pubblica e di
rigettare ogni responsabilità sull´Europa ("è un obbligo europeo", "basta con i
burocrati europei") utilizzate in tanti paesi dell´UE portano una buona parte
di responsabilità per la crescita dei sentimenti anti-europei e della
diffidenza fra i popoli: un elemento di corrosione pericoloso che spesso
vediamo agire, per fare un esempio, quando in Italia si parla di Germania e,
reciprocamente, quando in Germania si parla d´Italia.
E poi ci vuole tempo. Piercarlo Padoan, presentando il libro
di Giunta e Rossi nella biblioteca della sede romana degli editori Laterza, ha
usato parole molto chiare. Il mantra dominante nell´eurozona è che ciascuno
deve fare la sua parte con le riforme strutturali e che solo così i risultati
macroeconomici miglioreranno. Ma non è per nulla chiaro quali siano i
meccanismi di trasmissione fra riforme e macroeconomia. L´unica cosa evidente è
che ci vuole tempo, in qualche caso molto tempo.
Le politiche di riforma strutturale hanno bisogno di periodi
lunghi per essere attuate e altrettanto lunghi per esercitare effetti. Ne segue
che i governi devono essere stabili e gli obiettivi politici che la comunità-paese
affida ai governi devono mantenere coerenza intertemporale. In questo quadro è
possibile chiedere alle istituzioni semi-federali sovranazionali europee di
"dare tempo". Draghi ha acquistato tempo sui debiti sovrani con il bazooka
delle Omt, il programma di eventuali acquisti illimitati della BCE sui titoli
di Stato di un paese sotto attacco speculativo. Di altre importanti innovazioni
politiche in Europa si sta discutendo: ad esempio sulle politiche industriali,
con il recente documento dei Ministri dell´industria dei più grandi paesi
europei, e sulle politiche di bilancio, con le proposte avanzate dal gruppo di
riflessione Monti o con quelle che l´Italia ha lanciato un anno fa nel
documento Padoan (sussidio europeo di disoccupazione, condivisione dei rischi,
completamento dell´Unione bancaria, eccetera).
Cosa sappiamo fare.
L´Italia nelle catene globali del valore
All´Europa possiamo chiedere tempo ma il lavoro da fare è
nostra responsabilità. Giunta e Rossi descrivono bene cosa sappiamo fare e cosa
dovremmo e potremmo fare, partendo da un´attenta analisi dei punti di forza e
di debolezza del paese.
L´Italia è un paradosso riassumibile in due dati: abbiamo da
più di vent´anni una crescita della produttività fra le più basse al mondo, ma nel
2016 abbiamo raggiunto il più elevato avanzo di bilancia commerciale della storia,
secondo in Europa alla sola Germania ormai da molti anni.
Com´è possibile questo? La risposta è che un´importante
pattuglia delle nostre imprese è riuscita a posizionarsi in modo eccellente
dentro le nuove modalità produttive internazionali, le catene globali del valore.
Nel mondo di oggi non c´è più distinzione fra industria e
servizi: ogni prodotto industriale ha dentro di sé ampie componenti di attività
di servizio (ricerca e sviluppo, distribuzione, marketing, assistenza al
cliente) e ogni attività di servizio utilizza importanti basi industriali
(infrastrutture, reti, sistemi informatici e di comunicazione, beni
strumentali). Nel mondo di oggi la maggior parte dei beni e servizi non è
interamente prodotta dentro un paese, ma assemblando fasi produttive successive
che possono essere svolte in diversi paesi: sono queste le catene globali del valore.
La competizione fra paesi non è più sul prodotto finale, come quando nel XIX
secolo Ricardo elaborò la teoria dei vantaggi comparati, ma sui compiti
produttivi che aggiungono "segmenti" di valore al prodotto. Il nuovo assetto
produttivo è figlio delle tecnologie dell´informazione e della comunicazione,
della riduzione dei costi di trasporto e di logistica e della liberalizzazione
dei commerci internazionali.
Giunta e Rossi raccontano questa rivoluzione con semplicità.
Descrivono casi concreti di storie d´impresa. E´ un racconto importante per
capire tratti essenziali della fase politica internazionale che stiamo vivendo.
La campagna neo-protezionistica di Trump si scontrerà prima o poi col fatto che
l´aumento delle imposte sull´import statunitense non colpirà soltanto beni
finali assemblati in altri paesi, ma anche tanti beni intermedi utilizzati
dalle imprese americane. Di fronte alla rinascita di sentimenti nazionalistici
in Europa bisogna sapere e far sapere che dentro ciascun prodotto finale
assemblato in ogni paese ci sono importanti segmenti produttivi provenienti da
altri paesi: dentro un´automobile tedesca ci possono essere freni italiani,
dentro un´automobile italiana ci possono essere vetri francesi, dentro un
mobile Ikea ci può essere legno lavorato in Italia.
I risultati straordinari dell´export italiano sono figli della
capacità di un pezzo del nostro sistema produttivo di conquistare posizioni
importanti come fornitori di prodotti intermedi che richiedono elevata
tecnologia e specializzazione.
Cosa possiamo fare.
Creare un habitat favorevole alla crescita delle imprese
Le imprese italiane sono storicamente abituate alla
subfornitura: l´hanno praticata fin dagli anni ´70 con il decentramento
produttivo delle grandi imprese e nei distretti industriali. Per quelle che ci
sono riuscite, l´abitudine a lavorare per "segmenti" dentro una catena del
valore è diventata un elemento di vantaggio competitivo. Mentre andavano in
crisi molti dei tradizionali distretti industriali del "made in Italy", il
settore che ha meglio tenuto è la meccanica, oltre all´agroindustria, al lusso
e in parte ai beni per la casa.
Fin qui i punti di forza. Perché non sono sufficienti a
rimettere l´Italia sulla carreggiata della crescita? Primo, perché le imprese
ben posizionate come subfornitori specializzati sono poche, non più del venti
per cento, contro un altro venti per cento che sembra ormai incurabile e il
restante magma del sessanta per cento che naviga in un "grande golfo" in cui
non è chiaro prevedere se riusciranno a raggiungere la Scilla della
modernizzazione o se scivoleranno verso la Cariddi dell´uscita dal mercato.
Secondo, perché abbiamo pochissime imprese che recitano
nelle catene globali del valore la parte più importante: architetto della
catena e proprietario del marchio del prodotto finale. Per raggiungere questo
ruolo bisogna investire in ricerca e sviluppo, innovare prodotti e processi,
gestire reti produttive e commerciali globali. Tutto ciò è possibile solo per
imprese di grande dimensione. L´Italia ne ha pochissime, la frammentazione
produttiva è uno svantaggio. Inoltre le imprese medie e medio-piccole di
successo hanno difficoltà − in qualche caso paura − di crescere. Quello che
possiamo fare secondo Giunta e Rossi è determinare le condizioni affinché le
imprese con potenziale di crescita possano realizzare questo potenziale.
Condizioni interne alle imprese in primo luogo, con
incentivi e azioni dirette per gli investimenti, il rafforzamento patrimoniale,
il sostegno alla ricerca e all´innovazione. Molti strumenti sono stati messi in
campo a partire dal 2012: detassazione dei nuovi apporti di capitale; super-ammortamento;
intervento diretto dello Stato tramite Cassa Depositi e Prestiti e i suoi fondi
di private equity; incoraggiamento a
tutte le forme di finanziamento non bancario (mini bond, venture capital);
fondi europei per la ricerca; programma Industria 4.0; da ultimo, nella legge
di bilancio 2017, riduzione dell´imposta sulle società ed estensione alle
piccole imprese dell´incentivo fiscale alla patrimonializzazione. Bisogna
andare avanti su questa strada, perseverare, monitorare con attenzione l´efficacia
di queste politiche per eventuali correzioni. Essere consapevoli che c´è
bisogno di tempo per raggiungere i risultati desiderati.
In secondo luogo condizioni esterne alle imprese, per
modificare le quali c´è bisogno non solo di tempo ma anche di un grande impegno
politico. Giunta e Rossi si soffermano in particolare sul sistema bancario e su
quelli della giustizia e dell´istruzione. Non dimenticano di puntare il dito
sulle rendite di posizione nei settori protetti dalla concorrenza e sui
labirinti delle procedure amministrative dello Stato e degli altri enti
pubblici. Esprimono preoccupazione per le conseguenze del risultato
referendario del 4 dicembre 2016. Sottolineano che alla strada delle riforme
strutturali non c´è alternativa e che è necessario lo sforzo politico di farne
maturare la comprensione e la condivisione fra le persone e le categorie che vi
sono coinvolte.
La crisi bancaria
Un capitolo del libro è dedicato a banche e finanza. Sono pagine
dense e importanti nelle quali uno degli autori del libro, direttore generale
di Banca d´Italia, compie il difficile esercizio di sottoporre ad analisi e
interpretazione vicende di cui è stato diretto testimone. La descrizione delle promesse
non mantenute dal progetto di Unione bancaria europea getta luce su un pezzo importante
della recente storia italiana, su vicende di cui si discuterà ancora a lungo.
E´ un racconto equilibrato, sobrio, puntuale, prudente,
com´è giusto che sia per un banchiere centrale. Penso che se ne possano trarre
conclusioni politiche su cui gli autori, comprensibilmente, non si avventurano,
mentre chi scrive questa recensione − e ha seguito molte delle vicende dall´osservatorio
del Parlamento − è stimolato a farlo dalla lettura del loro testo. I punti sono
due: le distorsioni indotte dai modelli di proprietà bancaria non capitalistici;
la sottovalutazione politica della questione bancaria fra 2012 e 2015.
Il sistema italiano è banco-centrico. Lo strumento più
diffuso è lo scoperto di conto corrente ed è altrettanto diffusa la pratica del
multiaffidamento: un´impresa ha rapporti con più di una banca, così le banche
si suddividono il rischio e l´impresa può evitare che un soggetto esterno sia a
conoscenza di tutte le informazioni che la riguardano.
Si tratta di una peculiarità italiana: non a caso fra le
cose che stiamo facendo e dobbiamo continuare a fare c´è il rafforzamento dei
canali finanziari diversi da quello bancario. Ma c´è di più: la caratteristica territoriale
policentrica degli insediamenti di popolazione e imprese in Italia ha portato
alla diffusione di istituti bancari di dimensione locale; molti sono cresciuti
storicamente in forme cooperative normali o ibride (banche popolari) e hanno
assetti di governance che rendono
difficile l´acquisizione di nuovo capitale. Ciò ne blocca la crescita oppure,
in caso di difficoltà, limita la capacità e velocità di reazione. In verità
nella frase precedente bisognerebbe usare l´imperfetto, perché riforme
importanti sono state introdotte negli ultimi due anni per superare questi
vincoli nel settore delle banche cooperative e in quello delle popolari.
Il modello di governance
delle banche territoriali prima delle riforme era portatore di potenziali
distorsioni. Pur di non perdere il controllo della banca gli azionisti e stakeholders territoriali potevano, a
fronte di opportunità di crescita che richiedono nuovo capitale, dare indirizzi
al management di cercarlo in modi diversi da quello normale, e cioè dal
mercato, pur di non vedere diluite le loro quote.
A ben vedere è da qui che nasce la crisi di Montepaschi (che
è una SpA e che nel libro non viene trattata né citata). Non dalla "sinistra"
che spolpa una banca, né da imprese truffaldine che non restituiscono il
credito. Ma dall´obiettivo, sbagliato, della comunità di Siena e delle sue
istituzioni civiche di non perdere il controllo del più antico istituto di
credito d´Europa: un obiettivo municipalistico, che fa a pugni con prassi di
gestione trasparente e moderna di una banca. La stessa distorsione ha portato piccole
banche locali a struttura cooperativa ibrida (popolari), di fronte alla
necessità di adeguare i requisiti di capitale, a ricorrere non al mercato − che
porta nella banca soggetti in grado di monitorare efficienza e gestione − ma al
collocamento presso clienti, famiglie e imprese, di obbligazioni subordinate a rischio
elevato.
C´è da augurarsi che la Commissione d´inchiesta sulle crisi
bancarie che il Parlamento sta varando lavori a una vera indagine conoscitiva
su questi aspetti strutturali, leggendo con attenzione il capitolo 7 del libro
di Giunta e Rossi. Se negli episodi reali di crisi bancaria si sono manifestati
comportamenti soggettivi civilmente o penalmente rilevanti, essi vanno
perseguiti nelle sedi proprie della giurisdizione, come sta avvenendo. C´è
anche da sperare che l´iniziativa del Parlamento non produca intralcio alle
indagini della magistratura. E´ già successo in passato con altre Commissioni
d´inchiesta: un esito possibile quando le motivazioni dell´iniziativa
politico-parlamentare hanno a che fare più con la comunicazione e lo scontro
fra i partiti che non con la volontà di produrre conoscenza condivisa sull´analisi
e l´interpretazione di questioni complesse.
Le promesse non
mantenute dell´Unione bancaria
Il modello italiano banca-impresa non poteva non incontrare
difficoltà dopo sette anni di recessione. Il fenomeno dei crediti deteriorati
nasce dalla natura delle banche italiane, prevalentemente commerciali e non
d´investimento, e dalla crisi di tante imprese, diventate totalmente o
parzialmente insolventi durante la Grande Recessione. La crisi però è stata
aggravata dall´evoluzione imprevista di alcuni indirizzi europei che, come
Giunta e Rossi dimostrano, non sono soltanto discutibili: sono palesemente
sbagliati.
La mina vagante dei debiti sovrani, depotenziata
dall´iniziativa della BCE, si trasferisce nel corso del 2012 sulle banche, che
detengono ampie quote dei debiti pubblici degli Stati di appartenenza. La
risposta fu il progetto di Unione bancaria, centrato su tre pilastri: fondo
comune di garanzia dei depositi bancari, schema comune di risoluzione delle
crisi bancarie, sistema unico di vigilanza. Nelle parole di Giunta e Rossi:
"Toccherà agli storici della politica internazionale e dell´economia spiegare
che cosa maturò nelle cancellerie europee nel 2012 e nel 2013. Il risultato
finale fu un rovesciamento di priorità: prima si procedette affrettatamente
alla costituzione del Meccanismo unico di vigilanza e subito dopo alla messa a
punto di un sistema di "risoluzione" delle crisi bancarie alquanto diverso dalle
premesse". Del fondo comune di garanzia per i depositi bancari non si è più
parlato, e non si parla neppure oggi, per l´opposizione tedesca.
L´unico obiettivo perseguito fu quello di impedire che
future crisi bancarie fossero risolte ricorrendo a risorse pubbliche (bail in), e questo dopo che la Germania
negli anni precedenti aveva aumentato il suo debito pubblico di 225 miliardi
per intervenire a sostegno di banche nazionali in difficoltà. L´Italia ne aveva
spesi soltanto due, e non avrebbe potuto permettersi ciò che ha fatto la
Germania. Resta il fatto che l´intervento europeo è fortemente asimmetrico e
non sembra tenere in alcun conto l´obiettivo della stabilità del sistema
finanziario.
Non è finita: l´Europa picchia l´Italia sulla questione
bancaria in altri tre modi. La Direzione concorrenza della Commissione emette
una comunicazione (atto amministrativo, non soggetto alla valutazione in sede
di Consiglio o Parlamento) con cui impedisce agli esistenti fondi nazionali di tutela
dei depositi, finanziati dal sistema bancario con risorse private, di essere
utilizzati in casi di crisi bancaria (è attraverso questo fondo che, nei
decenni passati, l´Italia aveva risolto le crisi bancarie salvaguardando la
stabilità del sistema). La nuova vigilanza europea mette nel mirino i crediti
bancari deteriorati più di quanto faccia con le perdite sulle operazioni
speculative, ad esempio quelle in derivati, e le sue comunicazioni pubbliche
infliggono più volte colpi alla reputazione di mercato delle banche italiane. Quando
arriva la prima applicazione delle nuove normative, con quattro piccole banche
italiane inserite alla fine del 2015 nel nuovo procedimento di "risoluzione"
prima che si avviassero verso il fallimento, i funzionari della Commissione
decidono che i crediti deteriorati di queste banche devono essere valutati al
18 per cento del loro valore nominale. Un livello che Giunta e Rossi giudicano
"irragionevolmente basso". In effetti i dati statistici esistenti mostrano che
sull´insieme dei crediti deteriorati del sistema bancario italiano nel periodo
che va dal 2011 al 2014 la percentuale di recupero è del 40 per cento.
Sottovalutazione
della questione bancaria: figlia della debolezza della politica
E´ un complotto anti-italiano ordito dai governi nordici e
dalle burocrazie europee? Giunta e Rossi rispondono di no: il peso geopolitico
dell´Italia era debole e soprattutto poco credibile la nostra richiesta di
mutualizzazione dei rischi (con l´assicurazione europea dei depositi) in assenza
di contropartite sulla stabilità e sul rigore delle nostre pubbliche finanze,
nonché sulla trasparenza dei comportamenti e sulla riforma delle regole nel
nostro sistema bancario.
Se Giunta e Rossi hanno ragione oggi dovremmo essere più
forti, dopo le riforme delle banche popolari e cooperative. Tuttavia io penso
che c´è un elemento in più: siamo stati noi a non saperci difendere bene in
questa partita, che vale molto più di qualche zero virgola di flessibilità sul
bilancio pubblico. Fra 2012 e 2015 c´è stata una sottovalutazione della
priorità politica che avrebbe dovuto essere assegnata alla questione bancaria.
Leggo questa sottovalutazione in due fatti, ciascuno dei
quali porta a una conclusione politica. Primo, il trattamento fiscale degli
accantonamenti nei bilanci bancari dei crediti deteriorati era molto
penalizzante in Italia al confronto degli altri paesi europei e di fatto
rappresentava un incentivo a non fare pulizia, a tenere nascoste le partite
incagliate. Rimuovere quello svantaggio però, nella vulgata dominante della
politica italiana, significa "fare un favore alle banche". Il governo ha
trovato il coraggio di agire solo quando la crisi ha raggiunto livelli di
guardia, nel 2015.
Secondo, Banca d´Italia chiedeva da molto tempo il potere di
rimuovere singoli amministratori o interi consigli di amministrazione di
istituti mal gestiti, ma lo ha ottenuto solo nell´estate del 2015: prima ha
potuto utilizzare soltanto la "moral suasion" oppure ha dovuto aspettare
l´intervento della magistratura. Si vede bene qui il potenziale ruolo
distorsivo esercitato dalle piccole banche locali e la loro capacità di
"catturare" la politica.
Il discorso pubblico sulla questione bancaria italiana, insomma,
è attraversato da superficialità, pressappochismo, populismo, pressione
corporativa, rincorsa fra i partiti a dimostrare che non si fanno favori ai
banchieri. La sottovalutazione del problema è figlia di questa debolezza, tutta
interna alla politica e ai cortocircuiti perversi fra politica e comunicazione.
Il merito di Anna Giunta e Salvatore Rossi è di fornire nel loro libro
materiali, informazioni e valutazioni che offrono un contributo per migliorare
il tono e la qualità della discussione pubblica.