Piketty, il PD e l´agenda di governo:
una riflessione
Marco Causi
Durante
il seminario dei gruppi parlamentari del PD insieme al Presidente del Consiglio
− Segretario nazionale, svoltosi il 9 marzo 2015 e dedicato al fisco, alcuni
hanno rilanciato le proposte fiscali di Piketty. Io le ho criticate con poche veloci
battute. In molti mi hanno chiesto di chiarire le motivazioni del mio atteggiamento
così critico. E mi è capitato di pensare, nei giorni successivi, che poteva
essere utile, innanzitutto a me stesso ma poi forse anche alla dinamica della
discussione interna al PD in corso in questa fase, fissare con maggiore
precisione l´origine delle mie critiche alle proposte fiscali di Piketty. Un´origine,
ci tengo a precisare, che ha radici nell´economia politica classica, e non nel
"mainstream", ovvero nel pensiero
economico dominante. Sono nate così queste paginette.
Aumento delle
diseguaglianze: le ricerche di Piketty
Il
merito di Thomas Piketty è di avere accumulato e descritto un´impressionante massa
di dati, riguardanti decine di paesi nel mondo, dimostrando in modo difficilmente
confutabile che, soprattutto a partire dagli anni ´80, le diseguaglianze
all´interno dei paesi sono cresciute dappertutto, sia nella distribuzione dei
redditi sia in quella della ricchezza. Un altro merito, non secondario, è
di avere diffuso i frutti delle sue ricerche con un metodo e un linguaggio di
tipo storico-sociale, piuttosto che astratto-matematico − com´è d´uso per la
stragrande maggioranza degli economisti "mainstream".
I suoi studi sono così arrivati a un pubblico molto vasto, hanno esercitato
influenza politica e hanno contribuito a riportare l´argomento "distribuzione
dei redditi e delle ricchezze" al centro dell´attenzione (vedi per tutti "Il
capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano, 2014).
Le cause secondo
Piketty
L´analisi
di Piketty è empirica. Si tratta di "fatti alla ricerca di una teoria". I dati
utilizzati sono quelli delle dichiarazioni fiscali: stiamo cioè parlando della
distribuzione personale dei redditi, non di quella "funzionale" (salari,
profitti, rendite).
In
termini teorici, per trovare la causa dell´aumento delle diseguaglianze,
Piketty si limita alla seguente valutazione, anch´essa confermata dai dati
empirici: nelle fasi storiche in cui si osserva l´aumento delle
diseguaglianze si osserva anche un tasso di rendimento del capitale (d´ora
in poi lo chiamiamo r) superiore al tasso di crescita dell´economia
(d´ora in poi lo chiamiamo g).
Su
questo Piketty ha ragione: se r è maggiore di g, i detentori del capitale (immobili,
attività finanziarie, imprese, azioni, ecc.) ottengono aumenti dei loro
guadagni (rendite, interessi, profitti, dividendi, ecc.) sistematicamente
superiori agli aumenti medi dell´economia, e quindi le loro quote di reddito o
di patrimonio sui totali nazionali sono destinate a crescere costantemente, e
con esse le diseguaglianze.
Si
vede bene allora che l´aumento delle diseguaglianze "personali" ha qualche
connessione con la distribuzione "funzionale", e cioè con l´evoluzione dei
tassi di remunerazione/rendimento che le persone ottengono per i fattori che
impiegano nel processo produttivo (lavoro, capitale, ecc.). Ma questo punto
resta fuori dall´analisi di Piketty, che non procede alla domanda: perché r
può crescere più di g per così lunghi periodi di tempo, e in particolare perché
lo ha fatto negli ultimi 35 anni? E´ in questo senso che si può affermare
che gli studi di Piketty − pur rilevantissimi sul piano della conoscenza
empirica di un importante, anzi fondamentale, fenomeno del nostro tempo −
mancano di una rigorosa base analitica.
Poiché
Piketty fa derivare dalla sua ricerca alcune proposte di politica economica, la
valutazione di queste proposte deve tenere conto di questa "debolezza teorica":
se l´aumento delle diseguaglianze è causato da un r troppo elevato, potremmo
cercare possibili rimedi lavorando su r, e cioè sulla distribuzione funzionale
dei redditi.
Le proposte
di politica economica di Piketty
Invece
Piketty concentra le sue proposte sulla distribuzione personale dei redditi e
delle ricchezze e sulle modifiche che in essa possono essere indotte dall´azione
dello Stato, collegandosi allo storico filone del "compromesso
socialdemocratico" dello Stato sociale anni ´60-´70: l´aumento della progressività
dell´imposta personale sui redditi (con aliquota massima che dovrebbe
arrivare all´80 per cento per i redditi superiori a 500 mila dollari o a un
milione di dollari); l´imposta patrimoniale personale progressiva, da
applicare a livello mondiale raggiungendo al contempo un altissimo grado di
trasparenza finanziaria internazionale. Le risorse così ottenute dagli Stati e
dalla comunità internazionale potrebbero dar luogo a politiche di
redistribuzione (tramite trasferimenti monetari − pensioni e sussidi, aiuti
allo sviluppo dei paesi più svantaggiati − e tramite fornitura di beni e
servizi pubblici − istruzione, sanità, assistenza ecc.).
Piketty
non è un ingenuo. Sa bene che la sua è una provocazione, un sasso lanciato in
una discussione pubblica che le teorie economiche dominanti rendono povera, se
non stagnante. Sull´aumento dell´aliquota massima dell´imposta personale dei
redditi scrive infatti che "applicare una politica del genere in un piccolo
paese europeo, non armonizzato o poco armonizzato con i paesi vicini sul piano
fiscale, sarebbe ben più difficile che in un paese con le dimensioni degli
Stati Uniti" (op. cit. pag. 809). E dell´imposta mondiale sul capitale dice con
chiarezza che è un´"utopia" (op. cit. pag. 814; la battaglia contro i paradisi
fiscali e per la trasparenza dei movimenti finanziari è appena cominciata, e
siamo ben lontani da una situazione in cui i patrimoni personali siano
catalogabili e conoscibili a livello mondiale). Rivendica però che si tratta di
"un´utopia utile", per costringere i responsabili politici a ragionare intorno
alla necessità di costruire nuove istituzioni di regolazione mondiale della
globalizzazione.
Rendimento
del capitale troppo alto: imperfezioni dei mercati
Per
spiegare perché r può crescere più di g ci sono due possibili strade.
La
prima segue questo ragionamento: in un mondo perfettamente concorrenziale r
deve essere uguale a g, se non lo è vuol dire che il mondo non è perfettamente
concorrenziale. Per "regolare" r occorre superare queste imperfezioni
(monopoli, restrizioni del commercio internazionale o dei movimenti di
capitale, distribuzione non uniforme delle possibilità di accesso alla
conoscenza, ecc.).
Ad
esempio, se la Cina eliminasse le barriere alla circolazione dei capitali, lo
yuan si rivaluterebbe un bel po´, questo farebbe ridurre r in Cina e, per
conseguenza, anche quello mondiale. Un altro esempio: sul mercato del lavoro
molti ritengono che l´aumento dei differenziali salariali sia legato
all´elevato rendimento delle conoscenze sulle nuove tecnologie, il cui accesso
non è uniforme per tutti. La crescita delle opportunità di istruzione dovrebbe
rendere meno diseguale il "capitale umano", e questo farebbe ridurre r, almeno
quella parte di r che deriva dall´utilizzo di una risorsa scarsa (la
conoscenza).
Altri
esempi si potrebbero fare: le invenzioni, i brevetti, le innovazioni creano
situazioni monopolistiche per i proprietari che per primi le hanno realizzate e
introdotte, e quindi generano rendimenti "anormali". Normative che limitino
queste privative, rendendo di pubblico dominio le conoscenze tecnologiche,
farebbero ridurre r.
Rendimento
del capitale troppo alto: r è diventata una variabile indipendente?
La
seconda strada è quella proposta dalle teorie che hanno origine dai classici
dell´economia (Smith, Ricardo, Marx), in cui le variabili distributive
(tasso di remunerazione del capitale, saggio del salario, rendite) dipendono
non solo dal contesto economico (tecnologie, risorse, funzionamento dei
mercati) ma anche da quello storico-sociale e istituzionale. Ad esempio,
dalla libertà di espressione politica e sindacale, dalle modalità di
contrattazione dei salari, dalle leggi statali (importanti per le condizioni di
lavoro nei paesi in fase di sviluppo, importanti per le rendite nei paesi a
sviluppo maturo), così come dalle regole di livello internazionale.
In
queste teorie non è un´eresia affermare che r potrebbe essere diventata una
"variabile indipendente". E che per riportarla "sotto controllo" occorrono
nuove regole e istituzioni internazionali − non solo in campo fiscale, come
proposto da Piketty, ma anche in campo valutario e finanziario, come la nuova
Bretton Woods proposta dal Governatore della Banca centrale della Cina − e un
processo equilibrato di crescita democratica in molte aree del mondo che hanno
conquistato lo sviluppo ma non ancora la libertà.
Ad
esempio, se in Cina il sistema istituzionale dovesse evolvere in senso democratico,
è facile prevedere un aumento dei salari, e quindi una riduzione di r in quel
paese e, per conseguenza, a livello mondiale. Anche in Germania ci sono spazi
per aumenti salariali − i "mini jobs" in quel paese sono meno remunerati e più
precari degli analoghi italiani − i quali darebbero un importante contributo
non solo alla riduzione di r, ma anche all´assorbimento degli squilibri
macroeconomici dell´area Euro.
La
crisi italiana può essere interpretata dentro questo approccio: l´investimento
di capitale in Italia avrebbe difficoltà a raggiungere i livelli di redditività
necessari, sia perché r "mondiale" di riferimento è troppo alto, ma anche
perché sono troppo elevate le rendite (uno Stato troppo costoso, troppo costosi
i servizi gestiti in condizioni di monopolio, ecc.) e troppo elevato è il costo
del lavoro per unità di prodotto, mentre la produttività stagna perché l´apparato
produttivo ha tardato ad adeguarsi alle nuove tecnologie, in particolare la
parte del sistema non esposta alla concorrenza internazionale.
Qualche
conclusione politica
Piketty
viene talvolta definito come il "Marx del XXI secolo". In effetti, se è vero
che considera r come una variabile indipendente, il suo approccio ha qualche
legame con Marx. Però, dato che non procede su quella strada ma piuttosto su
quella della redistribuzione operata dallo Stato sociale, forse sarebbe più
congeniale definirlo il "Beveridge del XXI secolo", ricordando il grande
liberale inglese che pose le fondamenta dello Stato sociale.
Per
"regolare" un capitalismo a cui la globalizzazione ha concesso ampi spazi negli
ultimi 35 anni, con un conseguente drammatico incremento delle diseguaglianze,
Piketty propone il ricorso allo strumento fiscale. Secondo altri approcci,
sarebbero da considerare almeno allo stesso livello una nuova Bretton Woods
(improbabile, come la patrimoniale di Piketty) e aumenti salariali nei paesi
che se lo possono permettere, come Cina e Germania (più probabile, per effetto
di dinamiche sociali e istituzionali anche di tipo endogeno).
La
discussione suscitata dalle ricerche di Piketty è comunque di grandissima
utilità per la sinistra democratica, a condizione di saperne declinare con
accortezza le conseguenze in termini di azione politica:
1. la patrimoniale personale mondiale (o anche
europea) è un´utopia. Troppe le possibilità di elusione, al confronto con le
esistenti patrimoniali di tipo reale (un palazzo nel centro storico di Roma o
di Firenze l´IMU la paga, ma se l´imposta dovesse diventare personale sarebbe
più facile eluderla intestando la proprietà a società residenti in paesi
fiscalmente più leggeri). Questo però non deve esimerci dalla necessità di
costruire una banca dati dei patrimoni personali, così come previsto
dalle leggi italiane in vigore, né dalla battaglia per l´aumento delle basi
fiscali comuni nel bilancio dell´UE, con l´obiettivo di rendere questo
bilancio più autenticamente "federale" (incrementando ad esempio il suo
intervento sui sussidi alla disoccupazione, a partire dal primo esperimento su
Youth Garantee);
2. deve continuare l´impegno italiano nelle sedi
europee e internazionali per ridurre la concorrenza fiscale fra Stati e
per affermare nuove regole di trasparenza. In Europa il terreno immediato è,
piuttosto che quello proposto da Piketty, quello della convergenza delle imposte
sui redditi delle società (Direttiva sulla base imponibile comune per il
reddito delle società). In sede OCSE-G20, dopo il passo avanti compiuto sullo
scambio di informazioni finanziarie e la fine del segreto bancario, il nuovo
terreno di lavoro sono i sistemi di tassazione delle multinazionali, per
ridurre le possibilità di elusione e di "spostamento" dei profitti con cui
questi operatori beffano le legislazioni nazionali (il dossier si chiama BEPS, Base erosion profit shifting);
3. sul piano europeo, così come la Germania insiste
sui debiti eccessivi, noi dobbiamo insistere sugli squilibri macroeconomici
eccessivi di cui la Germania è portatrice: in quel paese devono aumentare redditi e domanda interna, e legislazioni
sui salari minimi possono dare un contributo;
4. sul piano interno, la "patrimoniale personale"
proposta dalla CGIL e da alcuni settori del PD è soggetta alle stesse critiche
sopra riportate. Fra IMU e imposta di bollo su conti correnti e conti titoli,
dopo il 2012 le imposte patrimoniali sono diventate in Italia, a differenza del
passato, superiori alla media UE, e vanno perciò trattate con estrema cautela
(in alcuni casi andrebbero ridotte o eliminate, come l´IMU sui fabbricati
produttivi);
5. sull´ultima aliquota Irpef e sull´ultimo
scaglione, invece, a mio parere si potrebbe ragionare (ci sono varie proposte
di legge in materia, compresa una a firma di chi scrive questa nota, che
introduce un´aliquota del 48 per cento per un nuovo scaglione sopra 120 mila
euro, per finanziare il reddito minimo di inserimento in alternativa al reddito
minimo garantito del M5S), ma naturalmente senza arrivare agli eccessi di
Piketty e dentro un´operazione che sfrondi le addizionali locali e destini il
gettito al finanziamento di un nuovo sistema di inclusione sociale accessibile
a tutti, e non soltanto ai lavoratori "protetti" (nuovi ammortizzatori, reddito
minimo di inserimento, ecc.).