Il decreto "Colosseo" del Governo Renzi riapre un´importante
partita, in modo assolutamente positivo. E´ una straordinaria occasione, da non
sprecare. Il Parlamento deve valutare fino in fondo la possibilità di ampliare
il decreto muovendosi verso una piena introduzione dei servizi legati alla
fruibilità e all´accessibilità al patrimonio culturale nell´ambito dei servizi
pubblici essenziali.
Nel 2009, durante la discussione della legge sul federalismo
fiscale, ci fu battaglia in Parlamento su questo punto, e credo che Dario
Franceschini la ricordi bene. Il PD proponeva di considerare i servizi
culturali come servizi essenziali e di inserirli fra le funzioni fondamentali
degli enti locali. Nel Governo e nella maggioranza di centrodestra prevaleva la
tesi che "con la cultura non si mangia" e fummo sconfitti.
La questione non è banale. L´istruzione di base è
obbligatoria per legge, ma nessuno può obbligare un libero cittadino a visitare
un museo piuttosto che, ad esempio, andare allo stadio. Il servizio sanitario è
per necessità utilizzato da tutti, ma soltanto il 26 per cento degli italiani
entra in un museo o in una mostra d´arte almeno una volta l´anno. A ben
pensarci, i servizi che garantiscono la fruibilità dei beni culturali hanno una
natura diversa da quelli che offrono istruzione e sanità. Ma sono forse per
questo meno "essenziali", e quindi da collocare su un gradino di priorità
inferiore nelle scelte pubbliche? La risposta è no: si tratta di attività che
si svolgono all´interno (e nell´intorno) di beni la cui natura pubblica è
indiscutibile (musei, aree archeologiche, monumenti, biblioteche, ecc.);
l´apertura al pubblico, la buona gestione, la capacità e la qualità
dell´accoglienza in questi beni genera effetti esterni di enorme rilevanza: per
il turismo, certamente - soprattutto nelle città come Roma, e altre in Italia,
che sono attrattori mondiali e in cui la quota del Pil prodotta da turismo e
cultura è di poco inferiore al 10 per cento - ma anche per il mantenimento e
l´accrescimento del capitale umano del paese − una cosa che non si misura con il
Pil, ma che è altrettanto importante per lo sviluppo economico e la coesione
sociale.
La conclusione è che i servizi culturali andrebbero inseriti
nell´intero apparato normativo e regolativo dei servizi essenziali, non
soltanto in quella parte che ne stabilisce in modo speciale le relazioni
industriali e le forme del conflitto sindacale. Per i servizi essenziali la
legge statale deve stabilire standard quali e quantitativi da applicare
sull´intero territorio nazionale (anche le Regioni speciali non possono
sfuggire). Si devono valutare costi e fabbisogni con metodi trasparenti (i
famosi costi e fabbisogni standard, oggi in vigore nella sanità e in tutte le
funzioni fondamentali dei Comuni). La finanza pubblica deve garantirne la
copertura, all´interno di assetti organizzativi efficienti, in tutti i suoi
livelli, Stato, Regioni e Comuni. Estendere questo tipo di regole ai servizi per
i beni culturali − declinandole con analisi e valutazioni tecniche che tengano
conto delle specificità del settore − potrebbe finalmente portare una salutare
rivoluzione gestionale.
Potrebbe garantire un grado di priorità nelle scelte
pubbliche, anche finanziarie, che da vent´anni il settore rivendica, senza che
però queste rivendicazioni siano mai andate oltre la consueta lamentela sulla
scarsità di risorse. E cioè senza che il settore − fatte salve, come sempre,
alcune importanti eccezioni − sia stato in grado di (oppure costretto a)
produrre proposte di innovazione basate sui criteri della trasparenza,
dell´efficienza e della qualità dei servizi verso l´utenza.