Vendere oggi le azioni Acea del Comune di Roma è un grave errore. All´attuale valore di mercato i proventi sarebbero pari a non più di due, forse tre, annualità di utili ante imposte. Nel progetto di bilancio del Comune queste risorse sono spezzettate in coriandoli di progetti, fra cui le manutenzioni ordinarie. Insomma: si svende un gioiello di famiglia (i cui utili possono coprire ogni anno qualsiasi spesa, ad esempio quella sociale o per le scuole) per aprire qualche cantiere una tantum dall´evidente sapore pre-elettorale per un Sindaco uscente in affanno di idee e di risorse.
Quale progetto industriale vuole vendere Alemanno? Il silenzio è assordante. Tre anni fa Acea stava per diventare la più grande multiutility locale d´Italia. Oggi è ridotta a un colabrodo. Non solo ha rinunciato alla crescita nei settori liberalizzati (produzione e vendita di energia e gas), le cui basi erano state poste fra il 2003 e il 2008, ma non riesce neppure a incassare le bollette (più di un miliardo di crediti verso utenti, di cui quasi 400 milioni per fatture non emesse). Il confronto fra i dati 2008 e 2011 è impietoso: ricavi più 5 per cento, ma costo del lavoro più 12 per cento; risultato operativo meno 17 per cento; oneri finanziari più 33 per cento; utile del gruppo, al netto delle attività discontinue, meno 54 per cento. Non a caso il valore dell´azione è sceso molto più di quanto la crisi abbia colpito i titoli comparabili.
Se il progetto fosse di concentrarsi sull´acqua sorge una domanda: quale collettività locale italiana avrà voglia di affidare la gestione idrica a un´Acea privatizzata, dopo l´evidente sensibilità emersa nel voto referendario? La natura pubblica dell´azienda (anche nella versione anglosassone, più soft, di public company) non è forse un importante elemento competitivo per un gestore idrico?
Il Sindaco sostiene di essere obbligato a vendere dalla legge nazionale. Falso: l´unico contratto "in house" che cadrebbe in caso di mancata discesa del Comune sotto il 51 per cento è l´illuminazione pubblica di Roma, che vale 55 milioni su 3,3 miliardi di fatturato e può tranquillamente essere messo a gara. Un azionista di Acea, Caltagirone, dà una mano al Sindaco affermando che la rescissione del contratto di cui sopra porterebbe danni all´azienda, e che gli azionisti privati sarebbero pronti a contestarli nelle sedi legali. Anche questo è falso: il contratto per l´illuminazione pubblica prevede, in caso di obbligo di gara, un risarcimento compreso fra 39 e 57 milioni di euro. L´azienda non avrebbe alcun danno e il Comune potrebbe mettere questa cifra come base per la gara.
E poi: la vendita non avverrà con una vera asta; lo "spezzatino" dei pacchetti azionari diluirà il valore a vantaggio dei compratori; non sarà difficile per gruppi bene organizzati costruire una rete per comprare i "pacchettini" e riunificarli al momento giusto (come avvenuto in alcune privatizzazioni mal gestite degli anni ´90); la delibera di Alemanno liquida la questione Acea in poche righe e non contiene elementi obbligatori per legge (fra cui i patti parasociali): con quella delibera, contro cui l´opposizione capitolina sta conducendo una strenua battaglia, la vendita delle azioni Acea non sarebbe legittima.
Con tutti i mezzi, oggi, la svendita di Acea va evitata. E con tutta l´intelligenza e la trasparenza che un caso così complesso richiede va poi ricostruito un futuro industriale per un´importante impresa romana che rischia, dopo tre anni di cattiva gestione e di incapacità dell´azionista pubblico, uno storico ridimensionamento.