Austerità e crescita: il sentiero obbligato dell´Italia
La crisi europea ha origini nell´economia reale dell´area euro, non è soltanto una crisi finanziaria e di "governance" dell´Unione. La Germania macina ogni anno attivi di bilancia dei pagamenti di parte corrente (beni più servizi) per più di sei punti di Pil (circa 150 miliardi di euro), mentre l´Italia e la Francia sono in deficit per circa tre punti di Pil (circa 40 miliardi l´Italia, quasi 60 la Francia), ancora di più la Spagna. Nel 1998, quando furono fissate le regole dell´euro, Francia e Italia erano in attivo di bilancia dei pagamenti, mentre la Germania, ancora impegnata nello sforzo della riunificazione, era in leggero passivo.
Questi dati raccontano due storie. Una è per il passato: in tredici anni la Germania ha sfruttato fino in fondo l´opportunità della moneta comune (investimenti, ricerca, riorganizzazione industriale, riforme costituzionali, ecc.), meno lo hanno fatto gli altri grandi paesi. L´altra storia è per il presente: per riportare in equilibrio Italia (e Francia e Spagna) è inevitabile in questi paesi una fase di austerità e di riforme strutturali (dell´economia e delle istituzioni). Non si tratta di una conseguenza dei debiti pubblici, o di una cattiva ideologia inutilmente rigorista, ma semplicemente del fatto che squilibri così accentuati all´interno di un´area monetaria comune non sono sostenibili a lungo andare (a meno che i tedeschi non scelgano di sussidiare i paesi in deficit attraverso una redistribuzione fiscale, un po´ come avviene dentro l´Italia fra centro-nord e sud).
E´ questo squilibrio "fondamentale" all´origine dell´attacco speculativo nei confronti dei paesi "deboli" dell´euro. Per l´Italia quindi non ci sono alternative ad una prolungata fase di rigore: riportare in avanzo il bilancio al netto degli interessi, fare riforme per il recupero di produttività, ridurre il peso delle rendite e dei monopoli e quasi-monopoli (soprattutto nel settore dei servizi), spostare il carico fiscale da lavoro e impresa verso i patrimoni, moderare i salari, ristrutturare il settore pubblico, orientare le politiche industriali verso la ricerca, l´innovazione, e quei segmenti produttivi in cui siamo diventati scarsamente competitivi nei confronti non della Cina, ma della Germania.
Non ha alcun senso criticare la richiesta di austerità che ci viene dall´Europa, e che è recepita nella lettera della BCE al governo italiano. Altre critiche sono possibili, e di grande importanza politica. Come ha detto Delors "gli Stati devono praticare il rigore, l´Unione europea il rilancio". L´Italia da sola non può fare politiche di sostegno alla domanda, l´Europa nel suo insieme sì (ad esempio con veri eurobond per gli investimenti). Se tutti fanno solo rigore e nessuno pensa alla crescita, l´Europa cadrà in depressione, e ciò non è nell´interesse della Germania. Le leadership di centro-destra di Germania e Francia stanno fallendo perché non riescono a esprimere una prospettiva strategica per l´intero spazio europeo, che invece emerge nei documenti comuni predisposti dai partiti democratici e socialisti. I processi di aggiustamento potrebbero essere meglio organizzati e coordinati: si paga il prezzo della mancata evoluzione istituzionale dell´Unione e dell´assenza di coordinamento delle politiche fiscali (ad esempio un coordinamento sull´accesso ai mercati per il finanziamento dei debiti pubblici nazionali). E poi i paesi in attivo, soprattutto la Germania, dovrebbero − simmetricamente − fare politiche interne espansive. La SPD propone un aumento dei salari legali minimi in Germania, a vantaggio dei lavoratori che non beneficiano dei contratti aziendali e della compartecipazione agli utili (il 60 per cento dei lavoratori tedeschi). Questo aiuterebbe l´intera area euro: chi è in deficit deve stringere la cinghia, ma chi è in avanzo deve allentarla. Si può, e forse si deve, anche discutere di modifiche di rango costituzionale ai vigenti trattati.
Come si vede, tutti gli aspetti critici sono di livello europeo. L´Italia dovrebbe portarli nelle sedi adeguate, ma non potrà farlo credibilmente se prima non si dota di un Governo che abbia maggiore reputazione di quello attuale e non dimostra di essere convinta (e coesa) nel fare la sua parte nell´aggiustamento complessivo. E la sua parte non può che essere, per alcuni anni, di rigore finanziario. Un rigore che avrà tanta più efficacia nel corso degli anni quanto più l´Europa avrà il coraggio di spostarsi da politiche mercantiliste a politiche di crescita.
In questo quadro, la lettera della BCE è maturata dentro uno scenario di sconcertante assenza di iniziativa da parte del governo italiano. Scarsa attenzione alla crisi finanziaria (e troppa ai guai giudiziari del premier e ai debiti delle sue aziende), litigi nella compagine governativa, trucchi venuti presto allo scoperto, come quello dei 20 miliardi di entrate aggiuntive derivanti dalla delega fiscale e assistenziale entro il 2013 (poi anticipati al settembre del 2012): una vera e propria bomba a orologeria per chiunque terrà le redini del governo dopo le elezioni, oppure durante la prossima estate. E poi bassa crescita, forte conflitto politico e istituzionale, scarsa coesione interna (diversamente da quanto avvenuto in Spagna).
I punti della lettera riprendono quelli del documento di valutazione del Programma di stabilità italiano da parte della Commissione europea (redatto in giugno), e li specificano in modo molto dettagliato. In alcuni casi … troppo dettagliato, per non capire che la lettera è stata scritta a Roma e non a Francoforte. A giustificazione degli estensori sta il fatto che c´erano opposizioni nel board della BCE in merito agli interventi di acquisto sui titoli pubblici italiani (come si è poi visto con le dimissioni del membro tedesco e con l´aperta ostilità della Bundesbank). Chi voleva (e vuole) fare intervenire la Banca centrale aveva (e ha) bisogno di esigere impegni cogenti da parte dell´Italia. Chi non si rende conto della via obbligata all´austerità per l´Italia porta acqua al mulino dei conservatori ipermonetaristi alla Jurgen Stark. Chi si lamenta della "scorrettezza" istituzionale e dell´invasione di campo deve capire che questi sono i rischi che corre un paese mal governato nel mezzo di una bufera finanziaria di dimensioni storiche.
Ma anche andando nel merito dell´agenda proposta dalla BCE, il giudizio deve restare lucido e articolato: le opportunità contenute in quella lettera non vanno sottovalutate. In tanti punti, infatti, l´agenda proposta è ampiamente nota, e nel complesso condivisibile: è sacrosanto parlare di aumento della concorrenza nel settore dei servizi (ad esempio, ordini professionali); è sacrosanto migliorare la qualità dei servizi pubblici con un quadro di regolazione più avanzato (ancora non abbiamo un´Autorità nazionale di regolazione per l´acqua, per i rifiuti, per i trasporti); così il miglioramento del sistema fiscale in relazione all´efficienza del mercato del lavoro (ad esempio, con il ridisegno delle detrazioni per i redditi da lavoro bassi e medio bassi, partendo da quelle per le lavoratrici donne); l´aumento della produttività nella pubblica amministrazione, con misurazione della performance (chi è contrario?); la semplificazione degli strati amministrativi intermedi; il suggerimento di sfruttare economie di scala nei servizi pubblici locali (ad esempio, che senso ha fare migliaia di gare comunali per la distribuzione del gas? Meglio organizzare le gare su bacini ampi, ad esempio regionali); e che dire, poi, del rafforzamento della contrattazione a livello d´impresa, dove la lettera dice testualmente che "l´accordo del 28 giugno si muove in questa direzione". Insomma, la cattiva BCE dà torto a Marchionne e ragione a Marcegaglia e Camusso!
Altri punti dell´agenda sono invece criticabili, o comunque potenzialmente declinabili con misure diverse da quelle suggerite: sulle privatizzazioni a larga scala emerge una componente ideologica, da manovrare con cautela, non solo perché i recenti referendum hanno dato un indirizzo politico a favore del presidio pubblico nei servizi essenziali, ma anche perché vendere oggi significherebbe svendere. Tuttavia, è vero che su dismissioni e privatizzazioni si può fare di più. Sulla mobilità del lavoro la lettera propone uno scambio di cui si parla fin dal 1998 (Commissione Onofri), con l´istituzione di un regime di assicurazione universale contro la disoccupazione. Sulle pensioni la BCE si concentra sulle sole pensioni di anzianità: si può non essere d´accordo e proporre misure diverse. Lo stesso sul pubblico impiego, dove la BCE abbraccia un´intonazione inutilmente rigorista: come in tutti i settori in crisi, si dovrebbe pensare di più a come fare una vera ristrutturazione del settore pubblico, facendo agire gli istituti della solidarietà, ad esempio con più part-time in uscita e in entrata, anche per non bloccare l´accesso a un´intera generazione di giovani.
Pesante, al limite della scorrettezza istituzionale, è il suggerimento di approvare tutto per decreto legge. Qui la lettera denota una scarsa conoscenza della nuova legge di contabilità e finanza pubblica, che permette di varare misure strutturali con provvedimenti collegati alla legge di stabilità, da mandare in Parlamento entro il 15 Ottobre. E´ vero però che una delle mancate riforme di questi anni perduti è quella dei regolamenti parlamentari, i quali dovrebbero assicurare tempi spediti e certi per l´approvazione di questa tipologia di provvedimenti. E´ criticabile che nella lettera siano assenti altri temi cruciali per il rinnovamento dell´Italia: la lotta all´evasione, il cambiamento della struttura distorta del sistema fiscale, la difesa della legalità, e altri ancora.
Tuttavia, l´agenda della BCE contiene opportunità e non soltanto rischi. E´ nata, e vive, al di fuori di ogni procedura formalizzata di negoziazione, a differenza di quanto avviene quando il Fondo monetario detta le "condizioni" per i suoi interventi ai paesi in crisi. Ma francamente, se quel tavolo negoziale ci fosse, io credo che sarebbe un buon posto a cui sedersi, per portarvi e fare valere le nostre idee e priorità e per cercare di raggiungere, come in ogni negoziazione, i migliori risultati per il paese e per le istanze politiche e popolari che i democratici rappresentano.
Marco Causi
5 ottobre 2011