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Marco Causi

Professore di Economia industriale e di Economia applicata, Dipartimento di Economia, Università degli Studi Roma Tre.
Deputato dal 2008 al 2018.

La soluzione più conveniente non è sempre quella liberistica del lasciar fare e del lasciar passare, potendo invece essere, caso per caso, di sorveglianza o diretto esercizio statale o comunale o altro ancora. Di fronte ai problemi concreti, l´economista non può essere mai né liberista né interventista, né socialista ad ogni costo.
Luigi Einaudi
 



29/04/2011 M.Causi
Decreto sugli interventi speciali per la rimozione degli squilibri economici e sociali
Decreto sugli interventi speciali per la rimozione degli squilibri economici e sociali
Un´occasione mancata per innovare e rilanciare le politiche di sviluppo. Le proposte del PD
Un decreto per il Sud?
Il decreto di riforma delle politiche territoriali di sviluppo e di coesione, incardinato nella forma di decreto attuativo della legge 42/2009 sul federalismo fiscale, viene venduto dalla macchina propagandistica del Governo come il versante meridionalista dell´attuazione della legge 42. Non a caso accanto al Ministro Calderoli, titolare dell´iniziativa governativa in materia di attuazione del federalismo, è sceso in campo il Ministro Fitto, con una opportunistica divisione del lavoro che cerca di far dimenticare come il Governo Berlusconi-Lega, a partire dal 2008, sia stato di gran lunga il più antimeridionalista che la storia repubblicana d´Italia ricordi.
Lo schema di decreto, purtroppo, non è in grado di ribaltare questo giudizio. Non si tratta solo di assenza di garanzie sulle risorse finanziarie, anche se questo punto non è secondario, considerato che il Governo in carica ha tagliato le risorse stanziate nel 2007 dal Governo Prodi destinate agli interventi di riequilibrio territoriale di quasi 20 miliardi in termini di competenza e di ben 38,5 miliardi tenendo conto anche delle rimodulazioni e delle modifiche allocative, sui 64 miliardi originariamente disponibili.
Si tratta anche, e soprattutto, di una proposta molto modesta sul piano dell´innovazione, di cui ha tanto bisogno questo settore alla luce delle difficoltà attuative riscontrate in passato. E di una proposta separata, perfino nel linguaggio oltre che nelle categorie normative, dal resto dei decreti collegati alla legge 42.
Insomma, la divisione del lavoro e della comunicazione politica fra i Ministri Calderoli e Fitto ha generato una proposta di decreto che non si riallaccia in modo organico con la legge delega e con le potenziali innovazioni in esse contenute, in particolare sul versante del raccordo fra interventi ordinari e interventi speciali connessi ai processi di perequazione di tipo infrastrutturale. Con il rischio che, per effetto di questo decreto, non emerga una vera politica per il Sud, ma piuttosto un´ulteriore grave ghettizzazione degli interventi di riequilibrio territoriale all´interno delle politiche pubbliche italiane.
Il Partito Democratico esprime quindi un giudizio fortemente critico e avanza una serie di proposte mirate a una profonda riscrittura della proposta che il Governo ha inviato al Parlamento.
Nord e Sud: un destino comune
Alla base del nostro giudizio critico sta innanzitutto un´analisi dei divari territoriali di sviluppo in Italia e dei loro recenti andamenti totalmente diversa da quella che il Governo ha fatto propria, e che è emersa reiteratamente, sia in occasione della presentazione del cosiddetto "Piano Sud", sia nei Documenti di programmazione economica, come anche il recente Documento di Economia e Finanza e il Piano Nazionale di Riforme ivi contenuto.
E´ da rigettare, perché errato anche nei fondamenti economici, un approccio che contrappone le esigenze del sistema produttivo delle aree più sviluppate del Nord con le necessità di sviluppo delle regioni meridionali: è l´approccio del Governo, in cui si ipotizza l´esistenza di due sistemi economici distinti − quello del Nord, che funziona e ha bisogno solo di aggiustamenti e quello del Sud, completamente da ridefinire. In realtà gli andamenti dell´ultimo decennio hanno dimostrato come la dipendenza dagli scenari internazionali ed europei, quella dalle scelte nazionali e le interrelazioni economiche tra le due aree sono così profonde da condizionare i risultati di tutti i territori da cui l´Italia è composta.
L´analisi delle dinamiche economiche dell´ultimo decennio mostra, infatti, accanto ad una interruzione del processo di convergenza tra Sud e Nord del paese, un declino dell´intero sistema economico nazionale rispetto alla media dei paesi dell´Unione europei. Nella tabella allegata si riporta la dinamica del PIL per abitante delle ripartizioni italiane rispetto alla media europea nell´ultimo decennio. Si evidenzia chiaramente come tutte le aree del paese mostrino una perdita relativa; un arretramento che ha riguardato con particolare intensità le regioni del Nord del Paese che, pur mantenendosi significativamente al di sopra del livello medio europeo, hanno ceduto nel decennio oltre 10 punti percentuali.
Tab. 1 Pil per abitante delle Ripartizioni italiane: Media UE 27 = 100
1998 2000 2001 2005 2006 2007
Nord-Ovest 140,0 136,0 137,0 133,0 130,0 127,0
Nord-est 137,0 135,0 135,0 129,0 128,0 125,0
Centro 124,0 121,0 122,0 122,0 119,0 116,0
Meridione 74,0 72,0 73,0 72,0 71,0 69,0
Isole 75,0 72,0 74,0 73,0 72,0 70,0
Italia 113,0 110,0 111,0 109,0 107,0 104,0
Nord, Centro e Sud d´Italia hanno insomma un destino comune: crescono insieme o insieme declinano, ed è sbagliato dal punto di vista analitico, prima ancora che da quello politico, pensare a strategie divaricate fra le diverse macro-aree territoriali. L´integrazione del sistema paese e l´interdipendenza fra le diverse aree territoriali fanno ampiamente premio sui fenomeni e sulle tendenze centrifughe. Basti soltanto ricordare che ogni anno le esportazioni nette del Centro-Nord verso il Sud superano 80 miliardi di euro (una cifra di gran lunga maggiore a quella del residuo fiscale che il Centro-Nord vanta al riguardo del Sud), un dato addirittura superiore, in rapporto al PIL, a quello precedente all´integrazione economica e monetaria d´Europa.
Dunque è l´intero paese che necessita di strategie in grado di invertire il declino e rilanciare lo sviluppo. Una politica che miri a sostenere e rafforzare l´esistente è del tutto insufficiente. Occorre procedere a sostanziali modifiche del modello di specializzazione, con un recupero anche della questione dimensionale, come del resto stanno facendo altre economie in vista della ripresa. Qui deve tornare in gioco, da protagonista attivo, il Mezzogiorno.
Fallimento delle politiche di sviluppo territoriale? Sgombrare il campo dalle ipocrisie
Per giustificare i tagli ai fondi destinati allo sviluppo e alla coesione territoriale il Governo utilizza l´argomento che queste politiche stiano funzionando poco e male, e che necessitino di una rivisitazione e di una messa a punto. Si tratta di una questione importante, su cui è necessaria una vera riflessione politica, che esca dalla semplice propaganda. Se davvero si volesse fare di questo decreto un momento di passaggio e di vera riforma, sarebbe per prima cosa necessario sgombrare il campo della discussione pubblica da diverse ipocrisie.
E´ vero infatti che le percentuali di impegno e di spesa sul primo quadriennio dei piani 2007-2013 relativi ai programmi comunitari sono molto basse. Ma lo sono sensibilmente di più di quanto avvenuto nel ciclo precedente di programmazione, il 2000-2006. Rendendo comparabili i dati 2000-2006 con quelli 2007-2013 (per tenere conto delle diverse posizioni assunte da Molise e Sardegna) l´avanzamento sugli impegni al dicembre del 2003 (e cioè alla fine del quarto anno del periodo di programmazione) è stato pari al 46,8 per cento, contro un dato del 18,9 per cento al dicembre del 2010. Per quanto riguarda i pagamenti, si passa dal 21,6 per cento al 10,1 per cento.
Da questi dati emerge il grande problema dell´incapacità realizzativa. Ma emerge anche che l´incapacità realizzativa non è uniforme nel tempo, come se fosse una legge bronzea della storia, ma sta invece notevolmente peggiorando. E peggiora soprattutto nell´ultimo triennio, dominato dalle politiche antimeridionaliste del Governo Berlusconi, periodo in cui è certamente mancato un indirizzo prioritario sull´attuazione di quei piani, non sono stati attivati i programmi basati sull´intervento nazionale del FAS, mentre i vincoli del patto di stabilità interno inserivano nuovi colli di bottiglia per le amministrazioni beneficiarie dei fondi.
L´incapacità realizzativa è stata ampiamente usata come arma contro le Regioni e gli altri enti decentrati. Dimenticando, però, che le cifre di impegno e di spesa dei programmi a gestione centrale (Ministeri, Anas, Ferrovie, ecc.) non sono affatto migliori (con la lodevole eccezione dei programmi gestiti dal Ministero dell´Istruzione). Ciò non basta, ovviamente, ad assolvere le Regioni e gli enti locali dalle loro mancanze, ma ci dice che l´incapacità realizzativa coinvolge pienamente anche lo Stato e, soprattutto, i suoi concessionari nazionali di servizi pubblici. Ed ha quindi a che fare con elementi (regole inefficienti, normative farraginose, programmazioni deboli, difficoltà di progettazione, procedimenti di selezione dei progetti poco efficaci, ecc.) comuni a tutti i livelli della Repubblica.
Non è questa la sede per indagare i motivi che hanno reso (relativamente) più efficace il periodo di programmazione 2000-2006 al confronto con quello successivo. Tuttavia, si tratta di un´indagine che andrà fatta, traendone senza remore le conclusioni. Ad esempio, potrebbe essere stato un errore scorporare le funzioni di programmazione e di coordinamento delle politiche di sviluppo territoriale dal Ministero dell´Economia, dove nacquero nel 1998 con Ciampi, ed accorparle al Ministero dello Sviluppo Economico. Si tratta infatti di funzioni meglio esercitate da un Ministro un po´ più "primus inter pares" degli altri. Anche la nuova soluzione di un Ministro delegato dal Presidente del Consiglio, i cui uffici peraltro restano in forza al Ministero dello Sviluppo, non appare convincente.
Interventi speciali, federalismo fiscale, Mezzogiorno
Il decreto è il primo, in attuazione della legge 42, ad affrontare il tema della spesa in conto capitale, e in particolare degli investimenti in infrastrutture. Emergono così, fin dall´inizio, due difetti.
Primo, il decreto non si intreccia in modo organico con la legge delega, e anche sul piano lessicale e del linguaggio utilizzato è collegato più alla storia passata e presente delle politiche di sviluppo e di coesione territoriali che alla nuova "sintassi" del federalismo fiscale (ad esempio: quale relazione fra perequazione infrastrutturale, fabbisogni standard e livelli essenziali delle prestazioni?).
Secondo, il decreto arriva dentro un vero e proprio vuoto pneumatico, perché l´attuazione della 42 non si è finora misurata con le spese in conto capitale (ad esempio: come si trasformano gli attuali trasferimenti ordinari in conto capitale? Come si trattano le fonti di entrata tipiche degli investimenti pubblici locali, come il ricorso al debito o i proventi straordinari?).
D´altra parte, le politiche per lo sviluppo e la coesione delle aree sottoutilizzate e per la rimozione degli squilibri strutturali non esauriscono la gamma degli "interventi speciali" previsti dalla Costituzione e dall´articolo 16 della legge 42. E la struttura (lessicale e finanziaria) della legge 42 si applica a tutto il paese, e non alle sole aree in ritardo di sviluppo.
Potrebbe allora nascere la tentazione di "annegare" le politiche per lo sviluppo territoriale nel mare più ampio degli "interventi speciali" e di considerare l´operazione della perequazione infrastrutturale alla stregua di un "intervento speciale" senza particolari vincoli territoriali. Si tratterebbe di un gravissimo e inaccettabile errore, perché le politiche territoriali di sviluppo e di coesione devono restare comunque la parte principale degli "interventi speciali" e devono continuare ad avere una logica legata all´obiettivo del superamento delle condizioni di dualismo strutturale del sistema Italia, come peraltro riconosce la stessa legge 42, grazie a una proposta di emendamento presentata dal PD e approvata dal Parlamento.
Le proposte che il PD avanza servono proprio a superare questi difetti. Da un lato, riteniamo necessario innovare le politiche di sviluppo territoriale, imparando dagli errori del passato, e anche proponendo interventi più radicali di quelli, abbastanza modesti, proposti dal Governo. Dall´altro lato, riteniamo necessario incardinare in modo organico le nuove politiche di sviluppo territoriale nella intelaiatura riformata della finanza pubblica multilivello che l´attuazione della legge 42 ha cominciato a costruire.
Perequazione infrastrutturale
La prima critica va rivolta al decreto interministeriale sulla perequazione infrastrutturale del 26 novembre 2010. L´articolo 22 della legge 42 prevede una fase di ricognizione "in sede di prima applicazione" delle dotazioni infrastrutturali territoriali, ma sarebbe bene che il decreto di riforma si occupasse anche della fase di "regime", su cui invece il testo del Governo è silenzioso.
Il decreto "di prima applicazione" varato dal Governo introduce una metodologia di calcolo legata a parametri fisici di offerta e scollegata dall´"architrave" di riferimento del federalismo fiscale, e cioè i fabbisogni standard e i livelli essenziali delle prestazioni (LEP).
Anche in assenza di LEP, sarebbe utile introdurre il riferimento agli obiettivi e/o ai livelli di servizio, che sono presenti sia nel decreto sui fabbisogni standard di Comuni e Province sia in quello sulle Regioni. In altri termini, deve essere chiarito che gli "standard" a cui fa riferimento il decreto interministeriale non sono cosa diversa dagli standard introdotti negli altri decreti di attuazione della legge 42.
L´indagine sulle dotazioni infrastrutturali territoriali deve essere estesa sia ai tradizionali settori dei "servizi essenziali" (sanità, assistenza, istruzione) sia ai servizi pubblici locali cui sono collegati importanti funzioni fondamentali di Comuni e Province (servizio idrico, ciclo dei rifiuti, trasporto pubblico locale e regionale, viabilità, illuminazione pubblica). Occorre considerare non solo indicatori di offerta, ma anche di domanda.
Interventi ordinari e interventi speciali: come ridefinire l´"aggiuntività" dentro la grammatica della legge 42
Il rapporto fra "ordinario" e "straordinario", ovvero fra "ordinario" e "aggiuntivo", è da sempre uno dei punti critici delle politiche nazionali e comunitarie destinate ai territori sottoutilizzati. Visto che ancora non c´è stata attuazione della legge 42 sul versante degli investimenti ordinari, la versione del decreto proposta dal Governo è molto insoddisfacente e pericolosa, potendo avere come effetto quello di scaricare sui fondi degli interventi speciali esigenze che dovrebbero trovare risposta nel ciclo finanziario ordinario. E´ necessario quindi chiarire il rapporto fra interventi ordinari e interventi speciali.
Non c´è dubbio che nei settori coperti da LEP debba esistere un legame fra convergenza ai fabbisogni standard e perequazione infrastrutturale "ordinaria". In settori come sanità, istruzione, asili nido, assistenza, acqua, rifiuti, viabilità, trasporto su ferro, ecc. dovranno essere definiti appositi piani pluriennali di investimento con precisi obiettivi da raggiungere nelle diverse aree territoriali. In ciascuno di questi piani si dovranno stabilire obiettivi di investimento propedeutici al raggiungimento, a seconda dei casi, di obiettivi di efficienza (costi standard) e/o di obiettivi di miglioramento del livello e della qualità dei servizi.
Nel ciclo ordinario di decisione della finanza pubblica (DEF, legge di stabilità e provvedimenti collegati) si dovrà, nel corso del tempo, stabilire ciò che è raggiungibile, per dati periodi temporali, tramite i meccanismi ordinari di perequazione, presidiati dalla Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica. E va fortemente stigmatizzata l´assenza di questi elementi nel Documento di Economia e Finanza che il Governo ha fatto approvare alla sua maggioranza nell´ambito della prima applicazione delle nuove procedure europee di bilancio.
Occorre a questo punto evitare due opposti estremismi. Il primo sarebbe di mettere a carico della finanza ordinaria l´obiettivo dell´integrale perequazione nei territori più svantaggiati. Viste le difficoltà della finanza ordinaria, i tempi della convergenza risulterebbero lunghissimi, mentre dall´altro lato le risorse "speciali" dovrebbero cercare allocazioni non più collegate ai LEP, rischiando così di non cogliere alcune priorità fondamentali per lo sviluppo e la coesione territoriale. All´opposto di questo, va evitata l´idea che i fondi destinati agli interventi speciali di perequazione infrastrutturale non debbano più considerare la specificità delle aree territoriali più svantaggiate.
Una posizione equilibrata è di ammettere il concorso dell´intervento "speciale" al finanziamento dei piani di investimento collegati ai percorsi di convergenza definiti dalle procedure ordinarie, con il vincolo che le risorse aggiuntive debbano essere utilizzate per permettere il raggiungimento di obiettivi più elevati, per dati periodi temporali, di quelli fissati dalla perequazione ordinaria.
Questa proposta fornisce una traduzione operativa al principio proposto dalla Banca d´Italia nel corso della sua audizione in Parlamento, e cioè di dare priorità, nei "nuovi" interventi speciali per la rimozione degli squilibri territoriali, a obiettivi di riduzione del divario fra infrastrutture disponibili e quelle necessarie ad assicurare un´adeguata qualità dei servizi pubblici.
Dal FAS al Fondo per lo sviluppo e la coesione
Il Governo propone di sostituire il FAS con un nuovo Fondo per lo sviluppo e la coesione. Ma non inserisce nel decreto due elementi fondamentali:
a) non è chiaro se il nuovo Fondo andrà collegato esclusivamente alla programmazione delle risorse successive al 2013 ovvero anche alla riprogrammazione delle risorse 2007-2013, che sarà certamente ancora fungibile dopo il 2013;
b) nulla è detto sulla dotazione del nuovo Fondo e sui parametri quantitativi a cui ancorarla, posto che il FAS ha subito decurtazioni (per competenza) di circa 20 miliardi fra 2008 e 2010 sui 64,4 originariamente stanziati dalla Legge Finanziaria 2007;
E´ vero che i parametri quantitativi inseriti per legge nel passato non hanno quasi mai funzionato (se non nei primissimi anni dalla loro istituzione, nel 2000-2001), ma è altrettanto vero che sul piano politico si tratta di un impegno di grande importanza, irrinunciabile per il PD, che propone una forchetta variabile fra lo 0,6 e lo 0,4 per cento del PIL in ragione d´anno, a seconda che si debba quantificare lo stanziamento di competenza o il consuntivo di cassa Va inoltre garantitala stabilità della dimensione finanziaria del Fondo lungo il ciclo, innanzitutto prevedendo che le risorse non possano essere facilmente rimodulate.
Inoltre:
a) per i documenti programmatici di rilievo comunitario va ripristinata l´intesa con le Regioni, oltre che il principio del partenariato sociale, obbligatorio per i regolamenti comunitari;
b) il Documento di indirizzo strategico (art. 5, comma 3), che riassume gli elementi fondamentali della programmazione che ha origine da indirizzi sia comunitari che nazionali, dovrebbe avere una maggiore importanza politica, ad esempio attraverso un parere delle competenti Commissioni parlamentari;
c) va garantita la piena tracciabilità contabile delle risorse trasferite ai soggetti attuatori ai fini dell´applicazione alla fonte" ma non "a valle" del patto di stabilità interno.
Lo schema di decreto contiene alcune innovazioni, che vanno però rafforzate e precisate:
a) va bene un nuovo e più efficace apparato sanzionatorio, ma esso va esteso a tutti i soggetti attuatori, compresi quelli centrali (amministrazioni statali, concessionari nazionali);
b) va bene il "Contratto istituzionale di sviluppo", ma ne vanno definiti i contenuti con maggiore dettaglio (per ciascun singolo impegno del Contratto devono essere chiari il crono programma, la valutazione, la responsabilità attuativa, i criteri di monitoraggio, le sanzioni per eventuali inadempienze, ecc.);
c) va bene l´introduzione di elementi di condizionalità, ma deve essere chiaro che la funzione di questo nuovo principio è di garantire l´efficacia e la rapida procedibilità degli interventi, e quindi a questo ci si deve riferire e non ad altro (ad esempio, si può condizionare un intervento sul trasporto all´esistenza di un piano regionale per i trasporti, ma non al raggiungimento di obiettivi finanziari nel campo della spesa sanitaria).
Programmazione comunitaria e programmazione nazionale
Uno degli insegnamenti del passato è che la piena coerenza temporale fra programmazione comunitaria e programmazione nazionale, pur essendo un obiettivo teoricamente ragionevole, ha finito per penalizzare la seconda. Infatti non è tecnicamente possibile impostare davvero una programmazione formalmente unica, poiché i vari fondi mantengono le proprie diverse strumentazioni attuative. E´ stato anche per il dilatarsi delle tempistiche programmatorie sul FAS 2007-2013 che si è avuto buon gioco a sottrarre ad esso le risorse originariamente allocate.
Inoltre, fino ad oggi il modello di programmazione comunitaria tende a procedere dall´alto verso il basso e presenta di fatto caratteristiche al tempo stesso molto generiche e molto rigide. L´Unione Europea limita gli aspetti programmatici alle tipologie e ai settori d´intervento, ed è flessibile sulla scelta dei progetti da inserire nei diversi contenitori settoriali. Ciò ha indotto in passato pratiche di selezione progettuale non sempre ottimali, pur di dimostrare la capacità di spesa nei settori predeterminati. Inoltre, e probabilmente sempre più in futuro, la programmazione comunitaria dovrà rispondere a obiettivi e priorità europee, e questi si concentreranno su pochi settori strategici d´intervento.
Il Fondo per lo sviluppo e la coesione dovrebbe invece potersi muovere anche su obiettivi propriamente nazionali e con logiche che privilegino l´individuazione puntuale delle iniziative fin dalla fase programmatoria, definendo tempestivamente l´effettiva fattibilità dei progetti e la necessità del coinvolgimento degli attori (nazionali o locali) di volta in volta più adatti. Se, pertanto, la programmazione del Fondo deve avere insieme caratteristiche molto puntuali e un respiro programmatorio almeno di medio termine, noi pensiamo che sia bene accettare la sfida con una necessaria dose di realismo.
La proposta è di mantenere il principio della programmazione pluriennale per cicli temporali medio-lunghi in armonia con quanto previsto per la programmazione europea, ma di destinare il 30 per cento delle risorse del Fondo a una riserva da programmare lungo il ciclo in relazione agli obiettivi di convergenza agli standard definiti dalla perequazione infrastrutturale, lasciando la maggior quota restante, il 70 per cento, nel quadro di una programmazione pluriennale più generale, come quella connessa alle procedure comunitarie.
Governance
Gli interventi proposti dal Governo per riformare la governance appaiono deboli, e si riducono in sostanza a una parziale centralizzazione delle procedure di programmazione. Poiché l´analisi degli insuccessi degli ultimi anni ha molto a che fare con la governance, si dovrebbe essere più incisivi. Queste le nostre proposte:
a) rafforzare e dare ruoli di terzietà al Dipartimento per le politiche di sviluppo, che dovrebbe essere messo in condizione di esprimere un vero potenziale di coordinamento, in particolare per la valutazione della condizionalità e della premialità;
b) sviluppare nuove forme di affiancamento e di assistenza tramite veri e propri apparati tecnici "federali" ("agenzie"), costituiti in partenariato fra Stato e Regioni, che valorizzino i bacini di competenze esistenti nelle strutture ordinarie;
c) dare un ruolo più ampio agli enti pubblici territoriali in fase di programmazione e di attuazione;
d) riconoscere in sede di Conferenza delle Regioni appropriate forme di coordinamento e di condivisione che coinvolgano l´insieme delle Regioni del Mezzogiorno.
e) prevedere adeguate innovazioni per attivare il partenariato sociale nel ciclo di decisione e di attuazione sia della programmazione comunitaria che di quella nazionale.
Per quanto riguarda il punto c), Comuni e Province sono più efficienti delle Regioni nelle spese per investimenti pubblici, e comunque il loro apporto è inevitabile per gli interventi che ricadono nel loro ambito operativo. Naturalmente, si parla qui di progetti che hanno rango "locale", e non sovraregionale o nazionale. Ma se l´obiettivo è quello di migliorare la qualità e gli standard dei servizi pubblici, non si tratta certo di un´area residuale.
Decreto sugli interventi speciali per la rimozione degli squilibri economici e sociali
Un´occasione mancata per innovare e rilanciare le politiche di sviluppo. Le proposte del PD
Un decreto per il Sud?
Il decreto di riforma delle politiche territoriali di sviluppo e di coesione, incardinato nella forma di decreto attuativo della legge 42/2009 sul federalismo fiscale, viene venduto dalla macchina propagandistica del Governo come il versante meridionalista dell´attuazione della legge 42. Non a caso accanto al Ministro Calderoli, titolare dell´iniziativa governativa in materia di attuazione del federalismo, è sceso in campo il Ministro Fitto, con una opportunistica divisione del lavoro che cerca di far dimenticare come il Governo Berlusconi-Lega, a partire dal 2008, sia stato di gran lunga il più antimeridionalista che la storia repubblicana d´Italia ricordi.
Lo schema di decreto, purtroppo, non è in grado di ribaltare questo giudizio. Non si tratta solo di assenza di garanzie sulle risorse finanziarie, anche se questo punto non è secondario, considerato che il Governo in carica ha tagliato le risorse stanziate nel 2007 dal Governo Prodi destinate agli interventi di riequilibrio territoriale di quasi 20 miliardi in termini di competenza e di ben 38,5 miliardi tenendo conto anche delle rimodulazioni e delle modifiche allocative, sui 64 miliardi originariamente disponibili.
Si tratta anche, e soprattutto, di una proposta molto modesta sul piano dell´innovazione, di cui ha tanto bisogno questo settore alla luce delle difficoltà attuative riscontrate in passato. E di una proposta separata, perfino nel linguaggio oltre che nelle categorie normative, dal resto dei decreti collegati alla legge 42.
Insomma, la divisione del lavoro e della comunicazione politica fra i Ministri Calderoli e Fitto ha generato una proposta di decreto che non si riallaccia in modo organico con la legge delega e con le potenziali innovazioni in esse contenute, in particolare sul versante del raccordo fra interventi ordinari e interventi speciali connessi ai processi di perequazione di tipo infrastrutturale. Con il rischio che, per effetto di questo decreto, non emerga una vera politica per il Sud, ma piuttosto un´ulteriore grave ghettizzazione degli interventi di riequilibrio territoriale all´interno delle politiche pubbliche italiane.
Il Partito Democratico esprime quindi un giudizio fortemente critico e avanza una serie di proposte mirate a una profonda riscrittura della proposta che il Governo ha inviato al Parlamento.
Nord e Sud: un destino comune
Alla base del nostro giudizio critico sta innanzitutto un´analisi dei divari territoriali di sviluppo in Italia e dei loro recenti andamenti totalmente diversa da quella che il Governo ha fatto propria, e che è emersa reiteratamente, sia in occasione della presentazione del cosiddetto "Piano Sud", sia nei Documenti di programmazione economica, come anche il recente Documento di Economia e Finanza e il Piano Nazionale di Riforme ivi contenuto.
E´ da rigettare, perché errato anche nei fondamenti economici, un approccio che contrappone le esigenze del sistema produttivo delle aree più sviluppate del Nord con le necessità di sviluppo delle regioni meridionali: è l´approccio del Governo, in cui si ipotizza l´esistenza di due sistemi economici distinti − quello del Nord, che funziona e ha bisogno solo di aggiustamenti e quello del Sud, completamente da ridefinire. In realtà gli andamenti dell´ultimo decennio hanno dimostrato come la dipendenza dagli scenari internazionali ed europei, quella dalle scelte nazionali e le interrelazioni economiche tra le due aree sono così profonde da condizionare i risultati di tutti i territori da cui l´Italia è composta.
L´analisi delle dinamiche economiche dell´ultimo decennio mostra, infatti, accanto ad una interruzione del processo di convergenza tra Sud e Nord del paese, un declino dell´intero sistema economico nazionale rispetto alla media dei paesi dell´Unione europei. Nella tabella allegata si riporta la dinamica del PIL per abitante delle ripartizioni italiane rispetto alla media europea nell´ultimo decennio. Si evidenzia chiaramente come tutte le aree del paese mostrino una perdita relativa; un arretramento che ha riguardato con particolare intensità le regioni del Nord del Paese che, pur mantenendosi significativamente al di sopra del livello medio europeo, hanno ceduto nel decennio oltre 10 punti percentuali.
Tab. 1 Pil per abitante delle Ripartizioni italiane: Media UE 27 = 100
1998 2000 2001 2005 2006 2007
Nord-Ovest 140,0 136,0 137,0 133,0 130,0 127,0
Nord-est 137,0 135,0 135,0 129,0 128,0 125,0
Centro 124,0 121,0 122,0 122,0 119,0 116,0
Meridione 74,0 72,0 73,0 72,0 71,0 69,0
Isole 75,0 72,0 74,0 73,0 72,0 70,0
Italia 113,0 110,0 111,0 109,0 107,0 104,0
Nord, Centro e Sud d´Italia hanno insomma un destino comune: crescono insieme o insieme declinano, ed è sbagliato dal punto di vista analitico, prima ancora che da quello politico, pensare a strategie divaricate fra le diverse macro-aree territoriali. L´integrazione del sistema paese e l´interdipendenza fra le diverse aree territoriali fanno ampiamente premio sui fenomeni e sulle tendenze centrifughe. Basti soltanto ricordare che ogni anno le esportazioni nette del Centro-Nord verso il Sud superano 80 miliardi di euro (una cifra di gran lunga maggiore a quella del residuo fiscale che il Centro-Nord vanta al riguardo del Sud), un dato addirittura superiore, in rapporto al PIL, a quello precedente all´integrazione economica e monetaria d´Europa.
Dunque è l´intero paese che necessita di strategie in grado di invertire il declino e rilanciare lo sviluppo. Una politica che miri a sostenere e rafforzare l´esistente è del tutto insufficiente. Occorre procedere a sostanziali modifiche del modello di specializzazione, con un recupero anche della questione dimensionale, come del resto stanno facendo altre economie in vista della ripresa. Qui deve tornare in gioco, da protagonista attivo, il Mezzogiorno.
Fallimento delle politiche di sviluppo territoriale? Sgombrare il campo dalle ipocrisie
Per giustificare i tagli ai fondi destinati allo sviluppo e alla coesione territoriale il Governo utilizza l´argomento che queste politiche stiano funzionando poco e male, e che necessitino di una rivisitazione e di una messa a punto. Si tratta di una questione importante, su cui è necessaria una vera riflessione politica, che esca dalla semplice propaganda. Se davvero si volesse fare di questo decreto un momento di passaggio e di vera riforma, sarebbe per prima cosa necessario sgombrare il campo della discussione pubblica da diverse ipocrisie.
E´ vero infatti che le percentuali di impegno e di spesa sul primo quadriennio dei piani 2007-2013 relativi ai programmi comunitari sono molto basse. Ma lo sono sensibilmente di più di quanto avvenuto nel ciclo precedente di programmazione, il 2000-2006. Rendendo comparabili i dati 2000-2006 con quelli 2007-2013 (per tenere conto delle diverse posizioni assunte da Molise e Sardegna) l´avanzamento sugli impegni al dicembre del 2003 (e cioè alla fine del quarto anno del periodo di programmazione) è stato pari al 46,8 per cento, contro un dato del 18,9 per cento al dicembre del 2010. Per quanto riguarda i pagamenti, si passa dal 21,6 per cento al 10,1 per cento.
Da questi dati emerge il grande problema dell´incapacità realizzativa. Ma emerge anche che l´incapacità realizzativa non è uniforme nel tempo, come se fosse una legge bronzea della storia, ma sta invece notevolmente peggiorando. E peggiora soprattutto nell´ultimo triennio, dominato dalle politiche antimeridionaliste del Governo Berlusconi, periodo in cui è certamente mancato un indirizzo prioritario sull´attuazione di quei piani, non sono stati attivati i programmi basati sull´intervento nazionale del FAS, mentre i vincoli del patto di stabilità interno inserivano nuovi colli di bottiglia per le amministrazioni beneficiarie dei fondi.
L´incapacità realizzativa è stata ampiamente usata come arma contro le Regioni e gli altri enti decentrati. Dimenticando, però, che le cifre di impegno e di spesa dei programmi a gestione centrale (Ministeri, Anas, Ferrovie, ecc.) non sono affatto migliori (con la lodevole eccezione dei programmi gestiti dal Ministero dell´Istruzione). Ciò non basta, ovviamente, ad assolvere le Regioni e gli enti locali dalle loro mancanze, ma ci dice che l´incapacità realizzativa coinvolge pienamente anche lo Stato e, soprattutto, i suoi concessionari nazionali di servizi pubblici. Ed ha quindi a che fare con elementi (regole inefficienti, normative farraginose, programmazioni deboli, difficoltà di progettazione, procedimenti di selezione dei progetti poco efficaci, ecc.) comuni a tutti i livelli della Repubblica.
Non è questa la sede per indagare i motivi che hanno reso (relativamente) più efficace il periodo di programmazione 2000-2006 al confronto con quello successivo. Tuttavia, si tratta di un´indagine che andrà fatta, traendone senza remore le conclusioni. Ad esempio, potrebbe essere stato un errore scorporare le funzioni di programmazione e di coordinamento delle politiche di sviluppo territoriale dal Ministero dell´Economia, dove nacquero nel 1998 con Ciampi, ed accorparle al Ministero dello Sviluppo Economico. Si tratta infatti di funzioni meglio esercitate da un Ministro un po´ più "primus inter pares" degli altri. Anche la nuova soluzione di un Ministro delegato dal Presidente del Consiglio, i cui uffici peraltro restano in forza al Ministero dello Sviluppo, non appare convincente.
Interventi speciali, federalismo fiscale, Mezzogiorno
Il decreto è il primo, in attuazione della legge 42, ad affrontare il tema della spesa in conto capitale, e in particolare degli investimenti in infrastrutture. Emergono così, fin dall´inizio, due difetti.
Primo, il decreto non si intreccia in modo organico con la legge delega, e anche sul piano lessicale e del linguaggio utilizzato è collegato più alla storia passata e presente delle politiche di sviluppo e di coesione territoriali che alla nuova "sintassi" del federalismo fiscale (ad esempio: quale relazione fra perequazione infrastrutturale, fabbisogni standard e livelli essenziali delle prestazioni?).
Secondo, il decreto arriva dentro un vero e proprio vuoto pneumatico, perché l´attuazione della 42 non si è finora misurata con le spese in conto capitale (ad esempio: come si trasformano gli attuali trasferimenti ordinari in conto capitale? Come si trattano le fonti di entrata tipiche degli investimenti pubblici locali, come il ricorso al debito o i proventi straordinari?).
D´altra parte, le politiche per lo sviluppo e la coesione delle aree sottoutilizzate e per la rimozione degli squilibri strutturali non esauriscono la gamma degli "interventi speciali" previsti dalla Costituzione e dall´articolo 16 della legge 42. E la struttura (lessicale e finanziaria) della legge 42 si applica a tutto il paese, e non alle sole aree in ritardo di sviluppo.
Potrebbe allora nascere la tentazione di "annegare" le politiche per lo sviluppo territoriale nel mare più ampio degli "interventi speciali" e di considerare l´operazione della perequazione infrastrutturale alla stregua di un "intervento speciale" senza particolari vincoli territoriali. Si tratterebbe di un gravissimo e inaccettabile errore, perché le politiche territoriali di sviluppo e di coesione devono restare comunque la parte principale degli "interventi speciali" e devono continuare ad avere una logica legata all´obiettivo del superamento delle condizioni di dualismo strutturale del sistema Italia, come peraltro riconosce la stessa legge 42, grazie a una proposta di emendamento presentata dal PD e approvata dal Parlamento.
Le proposte che il PD avanza servono proprio a superare questi difetti. Da un lato, riteniamo necessario innovare le politiche di sviluppo territoriale, imparando dagli errori del passato, e anche proponendo interventi più radicali di quelli, abbastanza modesti, proposti dal Governo. Dall´altro lato, riteniamo necessario incardinare in modo organico le nuove politiche di sviluppo territoriale nella intelaiatura riformata della finanza pubblica multilivello che l´attuazione della legge 42 ha cominciato a costruire.
Perequazione infrastrutturale
La prima critica va rivolta al decreto interministeriale sulla perequazione infrastrutturale del 26 novembre 2010. L´articolo 22 della legge 42 prevede una fase di ricognizione "in sede di prima applicazione" delle dotazioni infrastrutturali territoriali, ma sarebbe bene che il decreto di riforma si occupasse anche della fase di "regime", su cui invece il testo del Governo è silenzioso.
Il decreto "di prima applicazione" varato dal Governo introduce una metodologia di calcolo legata a parametri fisici di offerta e scollegata dall´"architrave" di riferimento del federalismo fiscale, e cioè i fabbisogni standard e i livelli essenziali delle prestazioni (LEP).
Anche in assenza di LEP, sarebbe utile introdurre il riferimento agli obiettivi e/o ai livelli di servizio, che sono presenti sia nel decreto sui fabbisogni standard di Comuni e Province sia in quello sulle Regioni. In altri termini, deve essere chiarito che gli "standard" a cui fa riferimento il decreto interministeriale non sono cosa diversa dagli standard introdotti negli altri decreti di attuazione della legge 42.
L´indagine sulle dotazioni infrastrutturali territoriali deve essere estesa sia ai tradizionali settori dei "servizi essenziali" (sanità, assistenza, istruzione) sia ai servizi pubblici locali cui sono collegati importanti funzioni fondamentali di Comuni e Province (servizio idrico, ciclo dei rifiuti, trasporto pubblico locale e regionale, viabilità, illuminazione pubblica). Occorre considerare non solo indicatori di offerta, ma anche di domanda.
Interventi ordinari e interventi speciali: come ridefinire l´"aggiuntività" dentro la grammatica della legge 42
Il rapporto fra "ordinario" e "straordinario", ovvero fra "ordinario" e "aggiuntivo", è da sempre uno dei punti critici delle politiche nazionali e comunitarie destinate ai territori sottoutilizzati. Visto che ancora non c´è stata attuazione della legge 42 sul versante degli investimenti ordinari, la versione del decreto proposta dal Governo è molto insoddisfacente e pericolosa, potendo avere come effetto quello di scaricare sui fondi degli interventi speciali esigenze che dovrebbero trovare risposta nel ciclo finanziario ordinario. E´ necessario quindi chiarire il rapporto fra interventi ordinari e interventi speciali.
Non c´è dubbio che nei settori coperti da LEP debba esistere un legame fra convergenza ai fabbisogni standard e perequazione infrastrutturale "ordinaria". In settori come sanità, istruzione, asili nido, assistenza, acqua, rifiuti, viabilità, trasporto su ferro, ecc. dovranno essere definiti appositi piani pluriennali di investimento con precisi obiettivi da raggiungere nelle diverse aree territoriali. In ciascuno di questi piani si dovranno stabilire obiettivi di investimento propedeutici al raggiungimento, a seconda dei casi, di obiettivi di efficienza (costi standard) e/o di obiettivi di miglioramento del livello e della qualità dei servizi.
Nel ciclo ordinario di decisione della finanza pubblica (DEF, legge di stabilità e provvedimenti collegati) si dovrà, nel corso del tempo, stabilire ciò che è raggiungibile, per dati periodi temporali, tramite i meccanismi ordinari di perequazione, presidiati dalla Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica. E va fortemente stigmatizzata l´assenza di questi elementi nel Documento di Economia e Finanza che il Governo ha fatto approvare alla sua maggioranza nell´ambito della prima applicazione delle nuove procedure europee di bilancio.
Occorre a questo punto evitare due opposti estremismi. Il primo sarebbe di mettere a carico della finanza ordinaria l´obiettivo dell´integrale perequazione nei territori più svantaggiati. Viste le difficoltà della finanza ordinaria, i tempi della convergenza risulterebbero lunghissimi, mentre dall´altro lato le risorse "speciali" dovrebbero cercare allocazioni non più collegate ai LEP, rischiando così di non cogliere alcune priorità fondamentali per lo sviluppo e la coesione territoriale. All´opposto di questo, va evitata l´idea che i fondi destinati agli interventi speciali di perequazione infrastrutturale non debbano più considerare la specificità delle aree territoriali più svantaggiate.
Una posizione equilibrata è di ammettere il concorso dell´intervento "speciale" al finanziamento dei piani di investimento collegati ai percorsi di convergenza definiti dalle procedure ordinarie, con il vincolo che le risorse aggiuntive debbano essere utilizzate per permettere il raggiungimento di obiettivi più elevati, per dati periodi temporali, di quelli fissati dalla perequazione ordinaria.
Questa proposta fornisce una traduzione operativa al principio proposto dalla Banca d´Italia nel corso della sua audizione in Parlamento, e cioè di dare priorità, nei "nuovi" interventi speciali per la rimozione degli squilibri territoriali, a obiettivi di riduzione del divario fra infrastrutture disponibili e quelle necessarie ad assicurare un´adeguata qualità dei servizi pubblici.
Dal FAS al Fondo per lo sviluppo e la coesione
Il Governo propone di sostituire il FAS con un nuovo Fondo per lo sviluppo e la coesione. Ma non inserisce nel decreto due elementi fondamentali:
a) non è chiaro se il nuovo Fondo andrà collegato esclusivamente alla programmazione delle risorse successive al 2013 ovvero anche alla riprogrammazione delle risorse 2007-2013, che sarà certamente ancora fungibile dopo il 2013;
b) nulla è detto sulla dotazione del nuovo Fondo e sui parametri quantitativi a cui ancorarla, posto che il FAS ha subito decurtazioni (per competenza) di circa 20 miliardi fra 2008 e 2010 sui 64,4 originariamente stanziati dalla Legge Finanziaria 2007;
E´ vero che i parametri quantitativi inseriti per legge nel passato non hanno quasi mai funzionato (se non nei primissimi anni dalla loro istituzione, nel 2000-2001), ma è altrettanto vero che sul piano politico si tratta di un impegno di grande importanza, irrinunciabile per il PD, che propone una forchetta variabile fra lo 0,6 e lo 0,4 per cento del PIL in ragione d´anno, a seconda che si debba quantificare lo stanziamento di competenza o il consuntivo di cassa Va inoltre garantitala stabilità della dimensione finanziaria del Fondo lungo il ciclo, innanzitutto prevedendo che le risorse non possano essere facilmente rimodulate.
Inoltre:
a) per i documenti programmatici di rilievo comunitario va ripristinata l´intesa con le Regioni, oltre che il principio del partenariato sociale, obbligatorio per i regolamenti comunitari;
b) il Documento di indirizzo strategico (art. 5, comma 3), che riassume gli elementi fondamentali della programmazione che ha origine da indirizzi sia comunitari che nazionali, dovrebbe avere una maggiore importanza politica, ad esempio attraverso un parere delle competenti Commissioni parlamentari;
c) va garantita la piena tracciabilità contabile delle risorse trasferite ai soggetti attuatori ai fini dell´applicazione alla fonte" ma non "a valle" del patto di stabilità interno.
Lo schema di decreto contiene alcune innovazioni, che vanno però rafforzate e precisate:
a) va bene un nuovo e più efficace apparato sanzionatorio, ma esso va esteso a tutti i soggetti attuatori, compresi quelli centrali (amministrazioni statali, concessionari nazionali);
b) va bene il "Contratto istituzionale di sviluppo", ma ne vanno definiti i contenuti con maggiore dettaglio (per ciascun singolo impegno del Contratto devono essere chiari il crono programma, la valutazione, la responsabilità attuativa, i criteri di monitoraggio, le sanzioni per eventuali inadempienze, ecc.);
c) va bene l´introduzione di elementi di condizionalità, ma deve essere chiaro che la funzione di questo nuovo principio è di garantire l´efficacia e la rapida procedibilità degli interventi, e quindi a questo ci si deve riferire e non ad altro (ad esempio, si può condizionare un intervento sul trasporto all´esistenza di un piano regionale per i trasporti, ma non al raggiungimento di obiettivi finanziari nel campo della spesa sanitaria).
Programmazione comunitaria e programmazione nazionale
Uno degli insegnamenti del passato è che la piena coerenza temporale fra programmazione comunitaria e programmazione nazionale, pur essendo un obiettivo teoricamente ragionevole, ha finito per penalizzare la seconda. Infatti non è tecnicamente possibile impostare davvero una programmazione formalmente unica, poiché i vari fondi mantengono le proprie diverse strumentazioni attuative. E´ stato anche per il dilatarsi delle tempistiche programmatorie sul FAS 2007-2013 che si è avuto buon gioco a sottrarre ad esso le risorse originariamente allocate.
Inoltre, fino ad oggi il modello di programmazione comunitaria tende a procedere dall´alto verso il basso e presenta di fatto caratteristiche al tempo stesso molto generiche e molto rigide. L´Unione Europea limita gli aspetti programmatici alle tipologie e ai settori d´intervento, ed è flessibile sulla scelta dei progetti da inserire nei diversi contenitori settoriali. Ciò ha indotto in passato pratiche di selezione progettuale non sempre ottimali, pur di dimostrare la capacità di spesa nei settori predeterminati. Inoltre, e probabilmente sempre più in futuro, la programmazione comunitaria dovrà rispondere a obiettivi e priorità europee, e questi si concentreranno su pochi settori strategici d´intervento.
Il Fondo per lo sviluppo e la coesione dovrebbe invece potersi muovere anche su obiettivi propriamente nazionali e con logiche che privilegino l´individuazione puntuale delle iniziative fin dalla fase programmatoria, definendo tempestivamente l´effettiva fattibilità dei progetti e la necessità del coinvolgimento degli attori (nazionali o locali) di volta in volta più adatti. Se, pertanto, la programmazione del Fondo deve avere insieme caratteristiche molto puntuali e un respiro programmatorio almeno di medio termine, noi pensiamo che sia bene accettare la sfida con una necessaria dose di realismo.
La proposta è di mantenere il principio della programmazione pluriennale per cicli temporali medio-lunghi in armonia con quanto previsto per la programmazione europea, ma di destinare il 30 per cento delle risorse del Fondo a una riserva da programmare lungo il ciclo in relazione agli obiettivi di convergenza agli standard definiti dalla perequazione infrastrutturale, lasciando la maggior quota restante, il 70 per cento, nel quadro di una programmazione pluriennale più generale, come quella connessa alle procedure comunitarie.
Governance
Gli interventi proposti dal Governo per riformare la governance appaiono deboli, e si riducono in sostanza a una parziale centralizzazione delle procedure di programmazione. Poiché l´analisi degli insuccessi degli ultimi anni ha molto a che fare con la governance, si dovrebbe essere più incisivi. Queste le nostre proposte:
a) rafforzare e dare ruoli di terzietà al Dipartimento per le politiche di sviluppo, che dovrebbe essere messo in condizione di esprimere un vero potenziale di coordinamento, in particolare per la valutazione della condizionalità e della premialità;
b) sviluppare nuove forme di affiancamento e di assistenza tramite veri e propri apparati tecnici "federali" ("agenzie"), costituiti in partenariato fra Stato e Regioni, che valorizzino i bacini di competenze esistenti nelle strutture ordinarie;
c) dare un ruolo più ampio agli enti pubblici territoriali in fase di programmazione e di attuazione;
d) riconoscere in sede di Conferenza delle Regioni appropriate forme di coordinamento e di condivisione che coinvolgano l´insieme delle Regioni del Mezzogiorno.
e) prevedere adeguate innovazioni per attivare il partenariato sociale nel ciclo di decisione e di attuazione sia della programmazione comunitaria che di quella nazionale.
Per quanto riguarda il punto c), Comuni e Province sono più efficienti delle Regioni nelle spese per investimenti pubblici, e comunque il loro apporto è inevitabile per gli interventi che ricadono nel loro ambito operativo. Naturalmente, si parla qui di progetti che hanno rango "locale", e non sovraregionale o nazionale. Ma se l´obiettivo è quello di migliorare la qualità e gli standard dei servizi pubblici, non si tratta certo di un´area residuale.
 

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