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Marco Causi

Professore di Economia industriale e di Economia applicata, Dipartimento di Economia, Università degli Studi Roma Tre.
Deputato dal 2008 al 2018.

La soluzione più conveniente non è sempre quella liberistica del lasciar fare e del lasciar passare, potendo invece essere, caso per caso, di sorveglianza o diretto esercizio statale o comunale o altro ancora. Di fronte ai problemi concreti, l´economista non può essere mai né liberista né interventista, né socialista ad ogni costo.
Luigi Einaudi
 



23/10/2008 M. Causi
Le proposte per il federalismo fiscale del Partito Democratico
 
Il centrosinistra da tempo lavora con coerenza per un´azione riformista di segno federalista volta a modernizzare le pubbliche amministrazioni, ad alleggerire e semplificare gli apparati burocratici, ad aumentarne efficienza ed economicità attraverso un maggior controllo da parte dei cittadini.
E´ da questa visione che sono state ispirate le riforme di fine anni ´90 (trasferimento di competenze dallo stato alle regioni e agli enti locali, elezione diretta dei presidenti delle regioni, autonomia statutaria, nuovo titolo V della Costituzione). Il tracciato delle riforme si è interrotto fra il 2001 e il 2006 per la colpevole inerzia del centrodestra, che chiacchera tanto di federalismo fiscale ma non ha prodotto nessun risultato concreto nei cinque anni in cui ha governato. Nei due successivi anni di governo il centrosinistra si è impegnato a riprendere il percorso delle riforme, presentando proposte legislative organiche di attuazione del nuovo titolo V della Costituzione non solo in materia di federalismo fiscale, ma anche di assetto complessivo del sistema delle autonomie locali ("carta delle autonomie") e di riforma del Parlamento ("bozza Violante").
Il protagonismo, in questo campo, della cultura riformista e democratica, della sua capacità di iniziativa, della tensione all´innovazione che ci accompagna quando si devono fare i conti con le cose concrete, come la gestione dei servizi pubblici con cui si confrontano quotidianamente gli amministratori locali del nostro Paese, è fuori discussione. Ed ha già prodotto qualche risultato, se è vero, com´è vero, che il disegno di legge sul federalismo fiscale che il governo ha predisposto si è allontanato di molto dagli schemi estremistici presenti nei programmi elettorali del PDL e della Lega e ha acquisito come impianto di riferimento la proposta di legge della passata legislatura che porta la firma di Romano Prodi.
E tuttavia, quella proposta non ci convince. Non ci convince nel merito di tanti punti, che non sono esclusivamente tecnici, ma che hanno a che fare con questioni politiche di fondo. Così com´è, la proposta governativa per l´attuazione del federalismo fiscale è ancora lontana dal rappresentare un punto di equilibrio accettabile per il Partito Democratico, e lo argomentiamo in questo documento, insieme alle linee della nostra proposta e ai contenuti delle proposte emendative al testo presentato dal governo.
In vista della nuova fase di discussione che si sta aprendo nel paese e in Parlamento, è bene chiarire allora cosa deve essere, per il PD, il federalismo fiscale e cosa non deve essere.
Per il PD il federalismo fiscale deve essere un mezzo per:
• ricostruire un rapporto trasparente fra istituzioni pubbliche e cittadini sulle decisioni in materia di spesa pubblica e di imposte;
• utilizzare meglio le imposte versate dai cittadini a qualsiasi titolo, obbligando le pubbliche amministrazioni a standard di efficienza verificabili;
• concentrare l´attenzione della politica e il suo lavoro, in ambito sia nazionale che locale, sui livelli e sulla qualità dei servizi pubblici offerti a cittadini e imprese, che in tante parti del paese sono ancora sottodimensionati e insufficienti;
• modernizzare l´intero apparato pubblico, centrale e locale, e rafforzare i governi di prossimità nella capacità di curare i beni pubblici e il welfare del territorio;
• trasferire alle istituzioni più vicine ai cittadini le decisioni di entrata e di spesa in campi fondamentali dell´intervento pubblico senza che venga aumentata la pressione fiscale.
Insomma, per il PD il federalismo fiscale è un mezzo per rinnovare l´unità nazionale intorno a uno Stato riformato e a enti territoriali più autonomi e responsabili. Un mezzo per dare più forza alle collettività locali del nostro paese, per renderle più consapevoli e più coinvolte nei processi decisionali, per farle diventare sempre più capaci di affrontare le grandi sfide del tempo presente con una maggiore partecipazione alla gestione della cosa pubblica e ai processi di sviluppo del loro territorio nell´ambito dell´economia nazionale, europea e globale.
Per queste sfide il nostro punto di riferimento è lo spazio politico, democratico ed economico dell´Unione Europea, uno spazio da rafforzare sempre di più. Sfide che vedono il nostro paese in grave ritardo per la lentezza dei processi di innovazione istituzionale e politico-amministrativa. E di fronte a cui siamo ancora più deboli per la persistenza strutturale del dualismo economico e sociale che caratterizza l´Italia. Con il federalismo si deve definire una cornice politico-istituzionale che ci consenta di affrontare il tema del mezzogiorno in modo totalmente nuovo, come già cento anni fa proponeva Gaetano Salvemini.
Per il PD il federalismo fiscale non deve essere un mezzo per:
• ridurre l´intervento pubblico a "stato minimo" e abbassare il livello di guardia delle nostre, già insufficienti, politiche di welfare;
• redistribuire in modo distorto e imprevedibile le risorse fra le diverse aree territoriali del paese;
• alterare il principio costituzionale della progressività del sistema fiscale;
• sostituire al centralismo statale una sorta di neocentralismo delle regioni;
• creare le condizioni di un litigio permanente di tutti contro tutti, con effetti negativi sul funzionamento dei servizi pubblici.
Insomma, per il PD il federalismo fiscale non deve essere utilizzato per ridurre il grado di coesione della collettività nazionale. Non deve scatenare l´egoismo sociale o territoriale. Non deve essere subdolamente considerato come una leva per modificare due fondamentali principi della nostra carta costituzionale: il principio di uguaglianza dei diritti essenziali dei cittadini, di tutti i cittadini della nazione; il principio che ogni cittadino, indipendentemente da dove risieda, partecipa al finanziamento dei beni e dei servizi pubblici e collettivi sulla base della sua capacità contributiva.
Una riforma storica, da realizzare con un percorso intelligente, graduale e garantista
Fin qui i principi generali. Ma in questa materia conta molto anche il metodo, il processo con cui la riforma verrà progettata, realizzata e sottoposta in continuo a osservazione, monitoraggio e aggiustamento. Il paese non può permettersi che una riforma di questa rilevanza, che entra nel profondo delle più importanti politiche pubbliche, sia condotta in modo affrettato e superficiale.
Il PD lo ha già detto: la riscrittura del titolo V della Costituzione fatta nel 2001 per iniziativa del centrosinistra contiene grandi opportunità, ma anche difetti che andrebbero corretti. Ad esempio, le reti di trasporto e l´energia dovrebbero diventare materie sulle quali lo stato ha la potestà legislativa esclusiva e dovrebbe essere introdotta una clausola di supremazia, trasversale alle materie, per il livello centrale previo consenso del Senato federale. Ma il problema principale, che ha determinato anche un forte contenzioso tra lo stato e le regioni, è stata la mancata attuazione della riforma costituzionale del 2001, a partire dai principi fondamentali della legislazione concorrente e dalla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni collegate ai diritti civili e sociali, che sono di competenza del Parlamento.
Il federalismo fiscale dunque deve andare avanti di pari passo con l´attuazione delle altre parti del titolo V della Costituzione che incidono sulla parte "vera", su quella "reale", e non solo su quella finanziaria, dell´organizzazione della Repubblica:
• riduzione del peso degli apparati centrali ma anche di quelli regionali;
• sussidiarietà verticale ma anche orizzontale, per sburocratizzare i processi di produzione dei beni e dei servizi pubblici;
• individuazione delle funzioni fondamentali degli enti locali;
• attribuzione delle funzioni amministrative ai diversi livelli istituzionali in base ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.
Senza questo approccio sistemico, di cui il centrodestra è stato finora incapace, il federalismo corre il rischio di generare costi crescenti, nuove inefficienze burocratiche, aumento della pressione fiscale.
Insomma, l´attuazione dell´art. 119 riscritto nel 2001 richiede una grande attenzione. Al PD non piace, e non cesserà di criticare fortemente, una visione edulcorata e propagandistica del federalismo fiscale come di una panacea che, miracolosamente, porterà più soldi a tutti, al nord, al sud e alla Sicilia, a Roma capitale, alle regioni a statuto speciale, e così continuando. E´ questo che il PDL e la Lega hanno promesso durante la campagna elettorale. E´ questo che promettono nella proposta di legge Calderoli. Ma da dove dovrebbero venire queste risorse aggiuntive? L´esercizio che siamo chiamati a compiere, per il PD, deve essere "a somma zero", non deve cioè comportare aumenti né di spesa né di pressione fiscale.
Dopo che il centrodestra ha riempito il paese di promesse irrealizzabili durante la campagna elettorale, è in primo luogo compito del governo e della maggioranza parlamentare abbandonare ogni atteggiamento sbrigativo e riconoscere che le valutazioni e le analisi da mettere in campo per attuare il federalismo fiscale sono articolate e faticose. Nessuno capirebbe perché mai il ceto dirigente del paese si è imbarcato in questa riforma, se essa dovesse solo produrre nei prossimi anni un confuso e costante conflitto di tutti contro tutti: nord contro sud, regioni contro comuni, regioni ordinarie contro regioni speciali, e così via litigando e continuando a usare il tempo della risorsa politica non già per risolvere i problemi concreti delle persone ma per un infinito braccio di ferro sull´appropriazione dei (pochi) soldi disponibili da parte dei ceti politici centrali e locali.
Il PD è disponibile solo a un lavoro serio, che costruisca, innanzitutto in Parlamento, una cornice di informazioni e di dati che permettano al legislatore di fare una buona legge. Si badi bene, non sono necessari solo dati di tipo finanziario e contabile, ma anche dati relativi al concreto svolgersi di tante politiche pubbliche, ai loro costi unitari, ai livelli quantitativi e qualitativi dell´offerta, ai modelli organizzativi.
Il metodo di attuazione del titolo V, quindi, dovrà essere intelligente, graduale e garantista.
Intelligente: significa colmare le attuali incertezze negli assetti istituzionali con un´attuazione delle norme costituzionali attraverso leggi ordinarie, soprattutto in tema di coordinamento del nuovo "governo multilivello" della cosa pubblica italiana, oltre che in tema di poteri sostitutivi da parte dello stato.
Graduale, ma certo nei tempi di transizione e di attuazione: significa aprire un percorso che durerà alcuni anni, ma i cui tempi devono essere certi e ben scanditi. Non vorremmo ritrovarci di nuovo di fronte a un´ipocrisia del centro-destra, cha da un lato agita lo stendardo del federalismo ma dall´altro lato non crede fino in fondo alla necessità delle riforme.
Garantista: significa garantire il paese che la riforma sarà condivisa e accompagnata da un costante monitoraggio, che coinvolga in modo permanente il Parlamento e le diverse articolazioni centrali e locali della Repubblica.
Funzioni e risorse
Per decidere quanti soldi dovranno andare ai diversi livelli di governo (regioni, province, comuni) e con quali meccanismi, si devono prima stabilire le funzioni di ciascuno, ovvero ciò che ciascuno ha il compito di fare nel campo dell´offerta di servizi pubblici. Non si può discutere prima di risorse e poi di funzioni. E´ quello che il governo Prodi aveva iniziato a fare varando prima una proposta legislativa relativa all´ordinamento locale, denominato "Carta delle autonomie locali" e poi la proposta di attuazione dell´art. 119 relativo al federalismo fiscale. Recuperando insomma in meno di due anni i cinque anni di vuoto passati dal 2001 al 2006.
L´attuale governo si è impegnato a presentare la Carta delle autonomie locali come provvedimento collegato alla Finanziaria 2009 insieme alla proposta relativa al federalismo fiscale. Questo impegno, finora, è stato disatteso. Il PD auspica che si tenga conto del grande lavoro già fatto negli ultimi due anni e che non si torni indietro rispetto all´obiettivo irrinunciabile, che l´intera opinione pubblica chiede, di definire con chiarezza e senza incertezze "chi fa cosa" nell´ambito delle politiche pubbliche.
Le funzioni fondamentali di comuni, province, città metropolitane e regioni vanno articolate in modo da semplificare fortemente il sistema attuale. La Costituzione prevede che ai comuni vengano assegnate tutte le funzioni amministrative salvo che, per assicurarne il loro esercizio unitario, non debbano essere conferite al livello istituzionale superiore. Le gestioni associate da parte dei Comuni non vanno solo incentivate: vanno rese obbligatorie al di sotto di date soglie di popolazione. Laddove verranno realizzate le nuove città metropolitane devono essere abolite le province. E ogni funzione deve essere esercitata ad un solo livello di ente locale, quello più adeguato in base alla natura dell´attività da svolgere, con la conseguente soppressione di tutte le strutture amministrative esistenti agli altri livelli. Questo è decisivo per produrre una forte e decisa semplificazione del sistema, con l´abolizione dei doppioni e la conseguente riduzione della spesa.
Noi crediamo che in questa prima fase sia bene ragionare a funzioni date, e cioè concentrarsi sulle storiche funzioni degli enti regionali e locali italiani. Il sistema da costruire deve però avere sufficienti margini di flessibilità in modo da potere, in futuro, essere utilizzato per la devoluzione di ulteriori competenze secondo modalità generali oppure secondo le modalità differenziate previste dall´art. 116.
Una nuova "governance" pubblica ha bisogno di forti istituti di coordinamento
La finanza pubblica nel suo complesso è materia dello stato unitario, nell´ambito dei Trattati europei, e non può "spezzettarsi" per territori. Se si "territorializzano" le grandi imposte nazionali non si fa il federalismo fiscale ma si modifica la stessa radice della cittadinanza italiana, derogando ai principi dell´universalità delle prestazioni e della progressività. Si tratta di due principi (la cittadinanza è nazionale, il sistema fiscale è progressivo) irrinunciabili per una forza politica nazionale e riformista come il PD.
La nuova governance dell´Italia federale deve prevedere forti istituti e meccanismi di coordinamento fra i diversi livelli di governo. Stato, regioni, province e comuni non devono diventare dei "separati in casa": ciascuno fa quello che gli è assegnato, con le risorse definite, e nessuno si parla più.
Il principale meccanismo è quello di un coordinamento dinamico della finanza pubblica, che fissa il livello complessivo della pressione fiscale e la sua ripartizione fra i livelli di governo permettendo una programmazione su base triennale, aggiustabile anno per anno sulla base dell´evoluzione del ciclo economico, con provvedimento separato e antecedente la legge finanziaria. La norma è già stata scritta nel Ddl Prodi.
Il secondo meccanismo è il rafforzamento del sistema delle Conferenze. Il terzo è la costruzione di una base condivisa di dati relativi ai bilanci di tutte le amministrazioni pubbliche, ai costi di erogazione dei servizi, ai livelli di quantità e di qualità dei servizi stessi. Poiché in prospettiva saranno questi i dati su cui dovrà lavorare quotidianamente il nuovo Senato federale, la banca dati potrebbe fin da subito essere costituita come organo indipendente a partire dai due servizi bilancio di Camera e Senato, affiancati dall´Istat, dalla ragioneria generale dello stato e dalle rappresentanze tecniche del sistema delle regioni e delle autonomie locali.
In conclusione, per il PD la riforma di cui ha bisogno lo Stato italiano si articola in tre parti: la Carta delle autonomie, il federalismo fiscale e un insieme di modifiche alle norme esistenti, di rango costituzionale e di rango ordinario, che permettano al nuovo sistema multilivello di funzionare con precisi istituti di coordinamento e di controllo, a partire dall´abbandono del bicameralismo perfetto e dalla conseguente trasformazione del Parlamento, con l´istituzione del Senato federale. Su tutte e tre queste direzioni abbiamo presentato e presenteremo precise proposte legislative e ci confronteremo con quelle elaborate dal governo.
Il federalismo fiscale è il mezzo per avere politiche pubbliche più efficienti e più concentrate sui servizi essenziali
Per il PD il federalismo deve rinnovare il welfare pubblico, nella quantità, nella qualità, nella legittimità politica. La chiave sta nel rendere più efficienti, e quindi meno costosi, i servizi, ottenendo così le risorse per aumentare l´efficacia e quindi anche l´estensione delle politiche pubbliche, soprattutto nelle zone del paese che restano ancora oggi ben lontane da standard accettabili di offerta nei servizi essenziali.
Qui si apre una questione di fondo, affinché il federalismo abbia il senso di una scommessa politica per tutto il paese. Questo punto, si badi, è cruciale non solo per il mezzogiorno, ma anche per tante zone del centro e del nord dove, storicamente, si è costruito un welfare locale molto avanzato, soprattutto su basi municipali. Va respinta l´idea che attraverso il federalismo fiscale si debba raggiungere una riduzione dell´offerta di servizi pubblici. Semmai è vero il contrario, perché quando si parla di "standard" si deve intendere non solo standard di costi, ma anche standard di servizio offerto, e cioè sua quantità e qualità.
Il PD ritiene che la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili, così come quella delle funzioni fondamentali degli enti locali territoriali, debba risultare sufficientemente estesa e comprendere non solo sanità, assistenza e istruzione ma anche il trasporto pubblico locale e tutti i più importanti servizi di prossimità (ad esempio, gli asili nido, le scuole materne, l´edilizia scolastica e in generale le funzioni già trasferite o da trasferire in materia di gestione del sistema dell´istruzione, l´illuminazione pubblica e la sicurezza, la manutenzione urbana e la viabilità, le infrastrutture culturali e sportive di base).
Le risorse per coprire il costo (standard) dei livelli essenziali delle prestazioni e delle funzioni fondamentali degli enti locali devono derivare, innanzitutto, da tributi regionali (definiti ad aliquota e base imponibile uniforme) e dalla compartecipazione regionale ad imposte erariali (Irpef, Iva). Le aliquote di compartecipazione sono determinate al livello minimo sufficiente ad assicurare il pieno finanziamento del fabbisogno corrispondente ai livelli essenziali delle prestazioni in una Regione.
A tale gettito si aggiungono le risorse garantite dallo Stato attraverso interventi di perequazione. Una perequazione che, come afferma con chiarezza la Costituzione, si basa su un apposito fondo alimentato dalla fiscalità generale.
Qui emergono, allora, le due grandi sfide. La prima, la sfida dell´efficienza: i fabbisogni di spesa andranno ricostruiti non più a partire da quelli storici, ma in base ai cosiddetti "costi standard", e cioè i costi più efficienti oggi raggiunti dalle amministrazioni migliori nelle diverse categorie di servizio.
La seconda, la sfida dell´efficacia delle politiche pubbliche e della loro capacità di intercettare in modo universale i bisogni sociali definiti come meritevoli. Per arrivare alla definizione dei nuovi fabbisogni di spesa, infatti, occorre moltiplicare il costo standard unitario per l´obiettivo quantitativo e qualitativo del servizio, e definire veri e propri "standard di servizio" da raggiungere almeno nel medio periodo.
Si tratta di un´impostazione molto simile a quella del processo di Lisbona, in cui l´indirizzo politico non si limita alle assegnazioni finanziarie, ma vincola l´amministrazione al raggiungimento di obiettivi quantitativi verificabili (ad esempio, numero di bambini negli asili nido, percentuale di raccolta differenziata, numero di anziani nelle residenze assistite, vetture-chilometro di trasporto pubblico, ecc.).
Questo significa che il PD guarda al federalismo fiscale come a un processo che non si svolge soltanto sul complicato terreno tecnico dei calcoli e delle verifiche di bilancio, ma che coinvolge pienamente e in modo più trasparente del passato fondamentali scelte politiche. Sono gli obiettivi di servizio che devono spiegare perché si aumentano o si riducono le tasse, perché si aumenta o si riduce la qualità e la quantità delle prestazioni in uno o in un altro campo dell´intervento pubblico.
La questione è talmente di fondo che riteniamo necessario stabilire per il Parlamento (che legifera in materia di livelli essenziali) procedure di decisione trasparenti e vincolanti: ad esempio una commissione bicamerale per l´attuazione del federalismo fiscale e della carta delle autonomie locali che segua tutto l´iter della predisposizione dei decreti di attuazione, avvalendosi anche di qualificati strumenti di audit, sul modello delle migliori esperienze internazionali, e diventi la sentinella, durante la fase di applicazione sperimentale, per esercitare il controllo ed effettuare i più che probabili interventi di aggiustamento in corso d´opera.
Un esempio: gli asili nido
Un esempio sarà utile per spiegare bene di cosa stiamo parlando. Prendiamo gli asili nido, un settore fondamentale in cui convivono obiettivi sociali ed educativi, di sostegno alle famiglie, e obiettivi economici, di sostegno al tasso di occupazione giovanile e femminile. Un settore gestito direttamente dai comuni, ma cofinanziato da stato e regioni.
In base ai dati Istat, se prendiamo il costo medio per bambino, esso è molto variabile da regione a regione. Altrettanto variabile la spesa pubblica media per bambino: in questo caso, una parte della variabilità è influenzata dalle scelte tariffarie, e cioè dalla percentuale di contribuzione a carico delle famiglie. Al netto di questo fattore, però, variazioni così accentuate non hanno motivazioni plausibili: la regolamentazione è uniforme in tutta Italia, i contratti di lavoro sono gli stessi, i costi degli acquisti fanno riferimento a un mercato unico. Certamente, si tratta, in questo come in tutti gli altri casi, di verificare e ricostruire in modo metodologicamente impeccabile tutti i dati necessari. E tuttavia, l´estrema variabilità dei costi unitari è indice che i diversi enti responsabili non producono un servizio omogeneo, paragonabile fra l´uno e l´altro ente, ma servizi che differiscono fra loro per modelli organizzativi, per standard qualitativi e quindi anche per costi unitari. E non si può poi escludere che, al netto dei fattori qualitativi, ci siano enti più attenti all´efficienza ed enti invece meno portati a cercare le soluzioni a minor costo per il contribuente.
Una parentesi: l´analisi dei dati disponibili non avvalora la credenza, che molti osservatori danno per scontata, che i costi unitari più bassi si trovino al nord e il contrario nel sud. Per esempio, nel caso degli asili nido, i costi unitari più bassi emergono nelle medie dei comuni di alcune regioni del sud, mentre quelli più elevati si segnalano nei comuni di alcune regioni del centro e di una regione a statuto speciale del nord. E´ chiaro che molto lavoro andrà fatto per rendere omogenei e comparabili i dati, per tenere conto della qualità del servizio e di una serie di altri fattori (come, ad esempio, la dimensione demografica dei Comuni, la loro dispersione territoriale, soprattutto nelle zone di montagna, ecc.). Ma comunque deve essere chiaro che la sfida dell´efficienza è da combattere in tutta Italia, e non soltanto in una sua parte.
In ogni caso, se consideriamo come riferimento il Veneto e poniamo come obiettivo per tutti i Comuni italiani di raggiungere il livello di costo unitario della media dei comuni veneti, questo determinerebbe un obiettivo di aumento di efficienza del 20% a livello medio nazionale.
Qual´è, però, il grado di copertura del servizio? In base a dati Istat, l´11,5% nel nord-ovest, il 13,7% nel nord-est, il 12% nel centro e appena il 2,5% nel sud continentale e il 6,4% nelle isole. Siamo soddisfatti di questa copertura? Ovviamente no, ed anzi in questo settore, come in altri, l´Italia ha sottoscritto in sede europea (Lisbona) un obiettivo di servizio molto impegnativo, pari al 30%. La definizione del fabbisogno standard da garantire a regioni e comuni dovrà tenere conto non solo del percorso verso l´efficienza, ma anche di quello verso un sostenibile aumento dell´offerta del servizio, da valutare in base a standard qualitativi di offerta ben definiti.
Verso quale obiettivo? E´ qui che si dovrà esercitare una responsabile e impegnativa scelta politica, con decisioni programmatiche e finanziarie conseguenti niente affatto banali. Escluse le regioni più piccole, il più alto grado di copertura è in Emilia Romagna (23,5%), il più basso in Calabria (1,5%). Se l´obiettivo di servizio standard viene posto al livello più alto, è chiaro che il fondo perequativo nazionale dovrà garantire nel tempo una quantità crescente di risorse per gli asili nido dei territori sottodotati. Se dovesse essere posto, invece, ad un livello intermedio, i comuni e le regioni che hanno raggiunto e superato quella soglia dovrebbero destinare al "di più" risorse proprie, chiedendo uno sforzo fiscale supplementare alla comunità amministrata oppure riducendo i livelli di spesa in altri settori.
Un nuovo welfare al costo più efficiente e agli standard più elevati
Ecco, allora, la scommessa di una Repubblica riformata. Un sistema pubblico in grado di discernere fra servizi essenziali e fondamentali e servizi meno importanti, e in grado di definire per quelli essenziali e fondamentali obiettivi di offerta agli standard più elevati e con costi di produzione sulla frontiera dell´efficienza. Un sistema paese in grado di programmare nel tempo il raggiungimento degli obiettivi e di misurare la quantità e la qualità dei servizi, in modo che si sappia a cosa servono e come vengono utilizzati i soldi pagati dai cittadini con i tributi locali e con la perequazione nazionale.
Negli anni passati una certa quantità di lavoro necessaria a predisporre gli schemi metodologici e i dati di base che vanno ricostruiti per compiere questo esercizio è stata fatta per il settore sanitario, partendo dalla definizione dei cosiddetti "livelli essenziali di assistenza". Oltre a completare il lavoro in quel settore, occorre adesso aprire un nuovo cantiere di lavoro per tutti gli altri servizi pubblici offerti da regioni, province e comuni diversi dalla sanità.
Il compito è complesso, ma è possibile e necessario realizzarlo. Per capire la difficoltà, basti pensare al fatto che la variabilità degli attuali costi unitari e livelli di servizio è molto maggiore nei servizi diversi da quelli sanitari al confronto con quelli che rientrano nel settore sanitario. Ad esempio, la spesa sanitaria corrente procapite oscilla, se si escludono le regioni a statuto speciale e quelle più piccole, fra un massimo di 1.964 euro all´anno a un minimo di 1.481 euro. L´intervallo di variazione è quindi del 33%, ovvero la regione con spesa per abitante più alta impiega un terzo di risorse in più di quella con spesa per abitante più bassa.
Negli altri servizi essenziali e fondamentali la variabilità oggi esistente è estremamente più elevata. Sempre escludendo le regioni a statuto speciale, negli asili nido la distanza che corre fra il costo unitario minimo e quello massimo è superiore al 300%, mentre il grado di copertura del servizio nei comuni della regione più dotata è superiore di ben 15 volte quello esistente nei comuni appartenenti alla regione meno dotata.
Se prendiamo un altro caso, quello delle strutture residenziali per gli anziani, le distanze vanno da uno a dieci: nella regione dove è più alto il grado di copertura del servizio, questo grado di copertura (265 anziani ogni 10 mila) è dieci volte superiore a quello medio del sud continentale (26 anziani ogni 10 mila). Anche il costo, però, è dieci volte superiore in questa regione al confronto con la regione dove emerge il costo più basso, un dato che è da mettere in relazione con livelli assolutamente non paragonabili di qualità e di integrazione del servizio di residenza con altri servizi.
Se prendiamo i servizi di assistenza domiciliare socioassistenziale per i disabili, il grado di copertura varia, da regione meno dotata a regione più dotata, dall´1,3% al 12,2%: ancora un intervallo da uno a dieci. In questo caso, il costo unitario varia "soltanto" di tre volte fra minimo e massimo.
Obiettivi di servizio e sistemi di controllo
Gli esempi e i numeri servono a chiarire che la discussione sul federalismo non si limita alle complicate formule tecniche per effettuare i riparti e le perequazioni. Costringe l´intero sistema paese a valutare gli obiettivi di servizio, a scegliere fra diverse alternative, a fissare risultati da raggiungere, verificabili sul piano quanti e qualitativo. Se una regione o un comune sono stati riforniti di risorse sufficienti per aumentare, ad esempio, il grado di copertura del servizio di asili nido per una certa percentuale programmata in un certo numero di anni, e non lo fanno, è lì che devono scattare sanzioni e contromisure per garantire i cittadini di quei territori. E´ per questo che riteniamo necessario disegnare i contorni dei poteri sostitutivi che devono scattare in caso di inadempienza, con un metodo assimilabile a quello messo in campo per la spesa sanitaria con il Patto per la salute. Per converso, vanno organizzati sistemi di premialità per gli enti che raggiungono gli obiettivi fissati.
Si capisce bene, allora, il lavoro complesso che andrà fatto nei prossimi mesi: costi unitari e livelli di servizio andranno valutati in decine e decine di casi, superando anche asimmetrie informative molto diffuse all´interno delle nostre pubbliche amministrazioni. Non partiamo da zero, grazie al lavoro svolto negli ultimi anni dalla Commissione tecnica per la finanza pubblica. La quale però è stata sciaguratamente soppressa dai tagli della manovra economica di luglio. Il PD ritiene che quel patrimonio di conoscenza e di competenza vada recuperato nell´ambito degli organismi tecnici da istituire per l´accompagnamento del federalismo fiscale.
E non partiamo da zero neppure nel settore più complesso e difficile, quello sanitario. Grazie al lavoro del governo Prodi, nel 2007 la spesa sanitaria è aumentata meno dell´1%, dopo essere cresciuta del 50% fra il 2000 e il 2006. Il Patto per la salute, siglato il 28 settembre 2006, ha funzionato e sta funzionando, con il suo retroterra di costi standard, di valutazioni condivise sull´appropriatezza dei sistemi di cura e di assistenza, con l´introduzione di meccanismi di premialità/punizione per le regioni.
Da questa esperienza è necessario trarre un insegnamento che va tradotto in norme generali: lo stato deve promuovere un più accentuato decentramento, ma le regioni e gli enti locali devono accettare forme efficaci e pregnanti di poteri sostitutivi in caso di inadempienze.
E´ bene a questo punto ricordare che la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni è un compito che spetta al Parlamento. Si tratta di un compito che non si esaurirà nel momento di inizio del processo, poiché è chiaro che il contenuto essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali non è un elemento che possa essere determinato in sé e per sé, astrattamente, una volta per tutte. La sua definizione, con legge dello stato, può avvenire solo attraverso una valutazione delle concrete e reali dinamiche dei bisogni, delle alternative esistenti per la loro soddisfazione, dei vincoli finanziari. Il Parlamento dovrà quindi esprimersi sui livelli essenziali in tutti i settori in cui la legge non ha ancora provveduto a fissarli, tenendo conto da un lato della disponibilità di risorse, a pressione fiscale invariata, e dall´altro lato di elementi di carattere politico e culturale relativi a ciò che, nel contesto dato, si considera "giusto" che lo stato garantisca in modo universale.
Federalismo e mezzogiorno: portare il sud verso standard di costo e di offerta in linea con l´Europa
Nell´impostazione del PD il federalismo offre al mezzogiorno la prospettiva di avviare, e in alcuni casi continuare, un percorso di adeguamento verso gli standard di servizio propri delle comunità più avanzate del paese e dell´Europa.
L´adeguamento è in due direzioni. Da un lato quella dei costi: i trasferimenti perequativi non saranno più dati "alla cieca", ma legandoli a parametri di costo efficienti. Dall´altro lato quella del livello e della qualità dei servizi: i trasferimenti perequativi dovranno consentire al sud di far crescere gli obiettivi quantitativi e qualitativi dei servizi essenziali, che oggi nel sud sono spesso ben lontani dagli standard prevalenti in altre zone del paese.
Così, gli amministratori pubblici nel sud saranno incentivati sempre più, al pari peraltro di quelli del centro-nord, a concentrarsi sui servizi essenziali, sulla loro efficienza ma anche sulla loro quantità e qualità. E per farlo il PD pensa che la perequazione debba essere ampia e debba essere nazionale, e cioè verticale, alimentata dalle risorse provenienti dalla fiscalità generale.
Inoltre, il PD è convinto che sia necessario concentrare le risorse aggiuntive che hanno origine dalle politiche di sviluppo e coesione − la cui destinazione all´85% per il sud è stata "salvata" grazie a un emendamento del PD durante lo scontro parlamentare sulla manovra di luglio - proprio sugli stessi servizi essenziali che saranno al centro nei prossimi anni dei nuovi meccanismi perequativi. Pensiamo al sistema dell´istruzione di base, agli asili nido, all´assistenza agli anziani, all´acqua, ai rifiuti. Le risorse "aggiuntive" devono essere il volano attraverso cui il rafforzamento della rete di servizi per la popolazione del sud possa cominciare da subito, per passare poi nel corso del tempo a riflettersi sui flussi della finanza ordinaria.
In questo contesto, va mantenuta la programmazione pluriennale del Fas e va reintrodotto il criterio di ripartizione territoriale della spesa pubblica in conto capitale, assente nel Dpef 2009-2013.. E va escluso che le risorse cui fa cenno il comma 5 dell´art. 119, quelle destinate a finalità speciali, possano essere dirottate verso interventi diversi da quelli collegati alle politiche di sviluppo. Noi non siamo convinti e ci opponiamo all´idea di utilizzare questi fondi concentrandoli solo su pochi grandi progetti infrastrutturali, come sembra intenzionato il governo dopo la manovra estiva: è necessario invece concentrarli sui servizi essenziali, e quindi anche sulle infrastrutture ad essi collegati, che però sono diffuse e non necessariamente concentrate (ad esempio: le flotte degli autobus urbani, i treni metropolitani, i sistemi di depurazione idrica e di trattamento dei rifiuti, gli asili nido, il recupero delle periferie e l´housing sociale nelle grandi aree urbane, i musei e i parchi archeologici, i sistemi di trasporto funzionali all´attrattività turistica, ecc.).
Infine riteniamo improprio, oltre che sbagliato, utilizzare le risorse "speciali" di cui all´art. 119, comma 5, per alimentare forme non selettive di fiscalità di vantaggio. Piuttosto che inseguire nuove forme di incentivazione di dubbia compatibilità con le regole comunitarie, è necessario ripristinare il credito d´imposta per gli investimenti, a cui l´Unione Europea ha già dato il via libera e che è stato eliminato dal governo di centrodestra.
Il PD ritiene che un coerente progetto di federalismo fiscale non possa marciare senza apportare modifiche significative non solo ai tagli, ma soprattutto alla qualità e all´indirizzo politico che la manovra triennale varata a luglio vuole imprimere all´utilizzo delle risorse destinate al mezzogiorno. Il federalismo fiscale non vedrà mai la luce se non è accompagnato da una stagione di grande attenzione alle politiche attive e di sviluppo per il mezzogiorno.
Federalismo fiscale e pubblica amministrazione
L´apparato pubblico italiano non è una variabile indipendente nel processo di riforma. E´ evidente che a tutte le amministrazioni pubbliche l´obiettivo del federalismo fiscale pone sfide rilevanti, che non possono essere affrontate con strumenti ordinari. Si profila la necessità di un grande piano di reingegnerizzazione delle pubbliche amministrazioni, che non potranno raggiungere la frontiera dell´efficienza se non verranno aiutate con percorsi di formazione del personale, di mobilità, di riforma organizzativa. Anche di questo si dovrà discutere e deliberare, e non solo delle campagne anti-fannulloni.
La chiara identificazione dei compiti di ciascuna istituzione consentirà di abolire gli enti intermedi e strumentali dello stato e delle regioni, oltre che ogni altro livello istituzionale tra i comuni, le unioni di comuni e le province. Gran parte delle funzioni svolte dagli uffici periferici di molti ministeri centrali potranno essere trasferite agli enti locali, e altre unificate presso gli uffici territoriali del governo, determinando in questo modo riduzioni di spesa e una maggiore funzionalità della pubblica amministrazione.
La sfida si gioca nel nord, nel centro e nel sud. Anche qui occorre superare un approccio superficiale e sbrigativo che influenza la discussione pubblica e che è stato instillato da chi agita la bandiera del federalismo in modo ideologico. In tantissimi casi, infatti, l´occupazione pubblica locale è più alta, in quota ai cittadini residenti, nel nord, appunto perché è soprattutto al nord, e al centro, che storicamente si è sviluppato e radicato un più pervasivo welfare locale. La questione non è quantitativa, è qualitativa: il contesto organizzativo e tecnologico dentro cui operano gli addetti pubblici è adeguato a garantire il raggiungimento degli standard di quantità e di qualità prodotti nelle migliori esperienze esistenti in Italia e all´estero? Spesso non è così, ma allora si deve intervenire con modifiche adeguate nell´organizzione dei processi produttivi e del lavoro.
Nel sud esiste certamente un problema aggiuntivo. Per decenni il pubblico impiego è stato il principale ammortizzatore sociale di territori la cui base produttiva era ed è insufficiente. Nelle regioni e negli enti locali del sud emergono, ad esempio, più frequentemente segnali di ipertrofia degli apparati di auto-amministrazione e segnali di una composizione dell´occupazione e di assetti di relazioni sindacali non favorevoli allo sviluppo delle funzioni di offerta di servizio. Non si possono che spiegare così, ad esempio, i dati raccolti dalla Corte dei Conti, che evidenziano rilevanti differenze fra le regioni in merito al numero dei dirigenti assunti: come si può giustificare che la regione Sicilia abbia in organico una quantità di dirigenti sette volte superiore alla regione Lombardia?
Ma per affrontare questo problema, che è strutturale, il semplice taglio delle risorse non risolve nulla. Occorre mettere in campo, accanto alle riforme organizzative, l´innovazione degli strumenti della contrattazione e un´azione del tutto speciale che abbia l´obiettivo di abbattere le spese generali degli enti pubblici i cui costi di auto-amministrazione sono fuori linea a vantaggio dei costi diretti per l´erogazione dei servizi. Il PD ritiene che, durante la fase di transizione, vadano previste forme di affiancamento, tutoraggio e formazione nelle regioni e negli enti locali in cui più forte deve essere lo sforzo di riconversione verso l´efficienza e la qualità della spesa.
Regioni, autonomie e finanza locale
Attraverso il sistema delle regioni e delle autonomie locali viene erogato il 29,7% della spesa pubblica nazionale (anno 2007). Il 13,7%, pari a 103,5 mld, appartiene alla voce sanità, gestita dalle regioni. Il resto delle spese pubbliche locali, per i servizi diversi dalla sanità e per gli investimenti, è suddiviso così: i comuni allocano 63,5 mld (8,4%), le province 13 mld (1,7%), le regioni 49,6 mld (6,6%).
Si vede bene da questi dati qual è il ruolo preminente dei comuni nell´offerta dei servizi di prossimità, un ruolo ancora più accentuato se guardassimo alla sola spesa per investimenti e se tenessimo conto che le regioni trasferiscono ai comuni, oltre che alle province, una quota delle loro risorse. Al di là delle tradizioni storiche da cui questo fenomeno ha origine, l´impianto costituzionale è chiaro: ai comuni spettano le funzioni amministrative di prossimità, alle province i compiti di governo di area vasta, alle regioni la legislazione, la programmazione e il coordinamento dell´intero sistema territoriale.
Qui, le scommesse dell´attuazione del federalismo sono tante:
• stabilire che al di sotto di una determinata soglia demografica i comuni debbano obbligatoriamente esercitare determinate funzioni fondamentali attraverso le unioni (principio di adeguatezza);
• incentivare lo sviluppo di sistemi regionali che in modo coerente e condiviso costruiscano reti di comuni all´interno di quadri programmatici e finanziari garantiti dalla regione di appartenenza;
• fare in modo che le province si concentrino sulla programmazione di area vasta, sulle reti infrastrutturali sovracomunali, sulle azioni per lo sviluppo sostenibile dell´ambiente economico e non si sovrappongano ai comuni nell´offerta diretta dei servizi di prossimità;
• incentivare le regioni alla collaborazione reciproca e a quella con lo stato per le infrastrutture e le reti che hanno valenza sovraregionale.
Un´ulteriore scommessa è quella dell´istituzione delle città metropolitane e del nuovo ordinamento relativo a Roma capitale, per consentire alle grandi città del paese e alla capitale della Repubblica di ottenere strumenti di governance più complessi e integrati. L´inadeguatezza dei sistemi di governo locale delle grandi aree urbane è uno dei punti dolenti dell´arretratezza dell´assetto istituzionale italiano. Le città metropolitane sostituiscono le province, possono avere un ordinamento differenziato nelle diverse realtà e assumono anche funzioni proprie dei comuni insieme a specifiche competenze regionali, con un´attenzione particolare ai temi infrastrutturali. Ma questo obiettivo così importante non ci deve far dimenticare la vasta rete di città medio-piccole che, soprattutto nel centro-nord ma anche nel sud, sono uno dei fondamentali punti di insediamento storico della tradizione civica e autonomistica della nostra nazione.
E´ per questo che il PD ritiene necessario che le funzioni fondamentali dei Comuni trovino un´ampia copertura finanziaria attraverso l´autonomia tributaria degli stessi Comuni e attraverso la perequazione nazionale. La contrapposizione tra regioni ed enti locali deve essere superata. Alle regioni e agli enti locali devono essere assicurate le risorse necessarie per gestire le proprie competenze. In alcuni casi (città metropolitane e altre grandi città) ciò potrà avvenire attraverso un fondo direttamente gestito dallo stato. In tutti gli altri casi sarà la regione ad assumersi il compito della perequazione finanziaria fra gli enti locali, e sarà lo stato a rifornire la regione con le risorse necessarie a far fronte alle funzioni fondamentali dei governi territoriali, imponendo anche stretti vincoli affinché le somme a ciò destinate non vengano utilizzate per altre finalità.
D´altra parte, sarebbe ben strano parlare di federalismo fiscale senza parlare di autonomia tributaria degli enti decentrati. Eppure, è questa la contraddizione in cui il governo Berlusconi si è messo con l´immediata attuazione della promessa elettorale di abolire totalmente l´Ici sulle prime case, che in precedenza il centrosinistra aveva cancellato solo per le famiglie che abitano in case di valore basso e medio-basso. Paradossalmente, gli enti di prossimità per eccellenza, i comuni, si avvicinano alla promessa stagione federalista con una riduzione della loro autonomia finanziaria, sostituita − peraltro non pienamente − da nuovi trasferimenti gestiti direttamente dallo stato centrale.
E´ chiaro che da questa contraddizione si dovrà uscire. Attenzione, però, a farlo pensando soltanto a compartecipazioni e addizionali. La principale base imponibile utilizzabile a questo scopo, l´imposta personale sui redditi, ha già assunto in Italia un ruolo ipertrofico all´interno del complessivo sistema fiscale − pesa per il 10,4% sul Pil contro una media europea dell´8,5% (anni 1995-2005) - e colpisce soprattutto redditi da lavoro e pensioni. E infatti, negli altri paesi europei è più alto il peso delle imposte indirette e di quelle reali, e nella grande maggioranza dei casi sono proprio queste le imposte usate per il finanziamento degli enti decentrati.
Il governo e la maggioranza dovranno dirci come intendono uscire da questa contraddizione. Il PD ha già dato un´indicazione, con un ordine del giorno accolto dal Parlamento, e quindi anche dal governo: trasferire ai comuni i proventi delle altre imposte esistenti collegate al patrimonio immobiliare (registro, ipotecarie e catastali, redditi). Sono gli immobili, infatti, gli oggetti fisici che non si spostano sul territorio, a costituire in tutti i paesi la base di riferimento per le imposte di livello comunale.
L´autonomia tributaria è un ingrediente essenziale del nuovo stato a cui pensiamo, perché amministratori che devono solo decidere come spendere risorse che qualcun altro gli procura sono meno responsabili e attenti di amministratori che devono chiedere soldi alla comunità amministrata e rispondere poi del loro uso. Anche il ricorso alle addizionali riduce il costo politico dell´imposizione e attenua l´elemento della responsabilità fiscale e della trasparenza nel rapporto fra costo e beneficio della prestazione. Ci sono molte attività che producono costi e benefici sociali di tipo locale e che possono diventare la base per forme trasparenti e partecipate di prelievi di scopo (circolazione stradale, turismo, specifici progetti di investimento con ricadute locali).
Per le regioni a statuto speciale, in prospettiva, occorrerà che l´assetto finanziario e le sue relazioni con quello statale siano ricondotti ad uno schema di correlazione trasparente e coerente fra funzioni attribuite e risorse assegnate. Anche in queste regioni è necessario passare alla misurazione dei fabbisogni attraverso costi standard e obiettivi di servizio, in modo che sia possibile misurare i risultati ottenuti con le risorse attribuite. Un simile processo di convergenza può essere avviato su base pattizia.
Infine, il PD ritiene essenziale una previsione legislativa per la standardizzazione della contabilità regionale e locale. Dev´essere lo stato centrale a fissare criteri omogenei per la classificazione dei bilanci e per la definizione dei costi dei servizi, ivi compresi quelli erogati tramite contratti di servizio da soggetti esterni alle amministrazioni. Deve essere possibile confrontare dati omogenei, costruiti secondo metodologie uniformi. Altrimenti i costi e i fabbisogni standard non potranno mai essere calcolati.
Il federalismo è un mezzo per utilizzare meglio le risorse pubbliche
Chi fa propaganda sul federalismo fiscale, lo presenta come un regime in cui a tutti verrà dato di più. Se vogliamo essere seri, sappiamo bene che questa è pura propaganda, perché la somma dei benefici che ciascun territorio pretende per sé non potrà ovviamente essere pari a zero. Inoltre, stiamo decidendo di realizzare il federalismo fiscale durante una fase di crisi economica, e quindi di ristrettezze finanziarie.
Il PD non fa demagogia, e dice le cose come stanno: il federalismo non è un mezzo per fare redistribuzione, ma è un mezzo per utilizzare meglio le risorse esistenti, sia al sud che al nord. L´utilizzo più efficiente è promesso, grazie al federalismo, sulla base di due elementi: primo, il riferimento ai costi standard, e quindi l´introduzione di un obbligo per tutte le amministrazioni pubbliche a collocarsi sulla frontiera dell´efficienza organizzativa; secondo, la maggiore vicinanza fra i cittadini e le amministrazioni che devono curare i servizi essenziali, e quindi la possibilità per i decisori pubblici locali di decidere "meglio" di quanto non possano fare i decisori nazionali, poiché sono in grado di monitorare e valutare con maggiore cura gli effettivi bisogni e le priorità.
Insomma, per usare la terminologia della teoria della finanza pubblica, il federalismo ha una funzione allocativa, e non redistributiva.
Detto questo, però, le aliquote (o quote) di compartecipazione al gettito dei grandi tributi erariali possono dare alle regioni e agli enti territoriali la prospettiva futura e graduale di contrattare anno per anno, o periodo per periodo, l´utilizzo dei proventi derivanti dall´evoluzione naturale del gettito.
Tutto va, ovviamente, verificato sul piano tecnico. Ma qualche elemento di dinamismo delle compartecipazioni renderebbe ancora più evidente che obiettivo del federalismo fiscale non è la scomposizione della nazione, ma al contrario la ricostruzione di una rinnovata unità nazionale intorno a istituzioni pubbliche più moderne e più vicine ai cittadini. E che i diversi livelli di governo della cosa pubblica non sono dei "separati in casa", ma collaborano, cooperano e si coordinano costantemente, per tenere sotto controllo la dinamica delle spese, delle entrate, dei costi, degli obiettivi di servizio.
I nodi critici della proposta Calderoli
Non dovrebbe stupire, a questo punto, che il PD esprima un giudizio critico su numerosi punti della proposta di legge che il governo ha varato per l´attuazione del federalismo fiscale.
In questa proposta:
• si introduce un principio estremo di "territorialità" delle imposte nazionali che confligge con i principi costituzionali fondamentali richiamati all´inizio di questo documento;
• non viene previsto nessun meccanismo di coordinamento dinamico della finanza pubblica a livello dell´intero sistema;
• la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni è ristretta, e soprattutto è vago il perimetro delle funzioni fondamentali dei Comuni che verrebbero perequate a livello nazionale;
• altrettanto vaghi sono l´entità della perequazione per i comuni, e quindi la sua completezza, e i riferimenti all´autonomia tributaria degli enti decentrati;
• il fondo perequativo per i servizi essenziali viene sottratto alla regolazione politica e finanziaria dello stato centrale, ossia si introduce una perequazione "orizzontale" piuttosto che "verticale";
• non si fa cenno alla valutazione, accanto ai costi unitari standard, degli obiettivi di servizio essenziali;
• l´incompleta perequazione rischia di comportare una perdita secca di risorse per le regioni meridionali;
• le risorse aggiuntive destinate allo sviluppo dei territori meridionali sono di ammontare incerto e non legate ad una programmazione pluriennale.
Infine, per strappare a tutti gli interlocutori istituzionali un consenso preventivo, la proposta incorpora in modo confuso e contraddittorio ogni sorta di richiesta specifica in materia di assegnazione del gettito di tributi esistenti, rischiando così di produrre un aumento della pressione fiscale, e non affronta il nodo delle regioni a statuto speciale.
Certo, la proposta varata dal governo è un passo avanti rispetto alla proposta assunta dal programma elettorale del PDL e della Lega. Ma siamo ancora lontani da un punto di equilibrio della discussione. La verità è che ancora oggi né il ministro Calderoli né il governo né il Parlamento sono in possesso di tutti i numeri e di tutte le informazioni necessarie a valutare con serietà l´impatto delle diverse opzioni possibili in materia di federalismo fiscale. Il rischio di avviare un processo che porti all´espansione della spesa pubblica e della pressione fiscale è molto concreto.
E´ questo il lavoro di lunga lena che va invece cominciato. Utilizzando la sede propria, quella del Parlamento. E consentendo al paese di seguire una discussione che, se bene impostata e con indirizzi politici coerenti, può rappresentare invece un importante confronto su come funzionano le politiche pubbliche in Italia, su quanto costano, su come migliorarne la performance a vantaggio dei cittadini.
 

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