Così l´esito del referendum sull´acqua può cambiare il futuro della multiutility. Se vince il No il Comune passerà dal 51 al 30%. E i soci privati la faranno da padroni
di GIOVANNA VITALE
Quale sarà il destino di Acea, il gestore dell´acqua romana, da lunedì in poi? Cosa accadrà se dovessero vincere i sì (abrogazione della legge Ronchi) o, viceversa, i no (conferma)? Di certo si apriranno due scenari diversi. Entrambi significativi.
Vediamo. La riforma prevede il progressivo affidamento ai privati della gestione dei servizi pubblici locali. Se il referendum dovesse fallire, il Campidoglio che detiene il 51% di Acea, ossia la maggioranza assoluta delle quote - privilegio che consente di programmare gli interventi sulla rete in base alle reali esigenze dei cittadini - avrebbe due possibilità. La prima: mantenere inalterato il pacchetto azionario, il che farebbe scattare l´obbligo di mettere a gara la concessione del servizio idrico, alla quale però la multiutility di piazzale Ostiense potrà partecipare con ottime chance di successo. La seconda: scendere sotto il 51%, come il sindaco Alemanno ha già annunciato di voler fare (fissando l´asticella al 30), ma trattenendo in cambio la concessione sino alla scadenza naturale, il 2026. Particolare da non trascurare: la concessione non comprende soltanto gli ordinari servizi di distribuzione, depurazione e fognature, bensì pure la gestione dell´Acquedotto del Peschiera, la maggiore infrastruttura della capitale, che rifornisce d´acqua un bacino di 3 milioni e mezzo di abitanti. "Pertanto diluire il controllo pubblico su Acea significa privatizzare non solo la gestione del servizio idrico, ma anche quella del principale acquedotto della città", spiega l´economista Marco Causi, deputato pd ed ex assessore al bilancio.
Uno scenario preoccupante, secondo Causi: "Nessuna gara, quindi nessun confronto competitivo, con un passaggio secco da monopolio pubblico a monopolio privato. Tra l´altro in assenza di una vera Autorità indipendente di regolazione che possa garantire da ingiustificati aumenti tariffari". A beneficiarne saranno, manco a dirlo, i compratori delle quote in via di dismissione: i quali, oltre a salire fin quasi sotto la soglia di controllo (30%), verranno selezionati dal Campidoglio con procedure di "collocamento privato presso investitori qualificati e operatori industriali", recita la legge da abrogare. In pratica: a discrezione. Acquirenti che, nel caso di Acea, hanno un nome e pure un cognome: Francesco Gaetano Caltagirone, passato in meno di tre anni dal 2 al 15%, divenendo il primo partner privato dell´ex municipalizzata. "Già oggi, per effetto dell´incapacità della giunta Alemanno a esercitare in modo decente il ruolo di azionista, l´azienda sembra controllata più da uno dei soci di minoranza che non da quello pubblico", prosegue Causi: "Figuriamoci cosa accadrebbe se i rapporti di forza dovessero essere ribaltati". A cosa si riferisce il parlamentare democratico? Basta ricordare un paio di episodi: la nomina ai vertici di Acea di Giancarlo Cremonesi (ex presidente dei costruttori romani un tempo molto stimato da Caltagirone) e dell´ad Marco Staderini (manager nel cuore del genero dell´ingegnere, il leader udc Casini); la rottura della joint-venture con i transalpini di Suez-Gdf e la conseguente uscita di Acea dalla produzione elettrica, come da esplicito desiderio dell´ingegnere in funzione anti-francese.
Ma c´è anche un atro aspetto da non sottovalutare. Dalla cessione del suo 20%, il Campidoglio incasserebbe subito tra i 320 e i 400 milioni. Nel lungo periodo, però, potrebbe rivelarsi un´operazione in perdita. Ogni anno, infatti, il Comune incassa da Acea un dividendo medio di 60-70 milioni; scendendo da 51 al 30% l´introito andrebbe decurtato di conseguenza, ma sarebbe comunque un bel gruzzolo. Dicono tuttavia ai piani alti di Palazzo Senatorio che la privatizzazione è necessaria per reperire risorse utili a ristrutturare una rete idrica ridotta ormai a colabrodo. Investimenti che altrimenti non si potrebbero fare. "Ma allora, se questo è il punto, il Comune non dovrebbe vendere il 20% delle sue azioni, ma convincere l´azienda e tutti i soci a lanciare sul mercato un aumento di capitale per finanziare un piano di sviluppo", conclude il professor Causi: "La quota del Campidoglio si ridurrebbe, è vero, ma arriverebbero soldi freschi per la crescita industriale con un modello da "public company" piuttosto che da "socio privato di riferimento"".